“Le isole di Norman” di Veronica Galletta: viaggio tra le pieghe della memoria

Ci sono libri come mappe, che sanno condurci alla scoperta di noi stessi, delle nostre paure, dei nostri pensieri più reconditi, dei nostri lati meno illuminati, attraverso un percorso che passa per luoghi e personaggi distanti e diversi da noi. Lo fanno con delicatezza, ma con quella attrazione magnetica che ti incolla alle pagine dalla prima all’ultima, dove, girandole una dopo l’altra, è come affacciarsi sempre su qualcosa di nuovo.

E Le isole di Norman, di Veronica Galletta, vincitore del Premio Campiello Opera Prima 2020, non poteva che essere pubblicato in Incursioni di Italo Svevo, dove, particolarità di tutti i titoli presenti nella collana, i volumi arrivano in libreria con le pagine ancora attaccate per un lembo le une alle altre, e per procedere con la lettura bisogna separarle man mano che si va avanti. Proprio come un lento scavare nella storia, alla scoperta delle vicende e dei personaggi.

Personaggi che sanno catturare, accompagnandoti lungo i sentieri e le spiagge dell’isola di Ortigia, dove è ambientata la storia. Un luogo con il quale Galletta ha un legame particolare, così come forte è il rapporto con la vicenda narrata, nata da un’idea molto personale.

L’idea alla base del libro è molto personale, ci racconta l’autrice, e riguarda la memoria. Volevo mettere su carta tutti i miei dubbi sulla memoria, sui ricordi che abbiamo, su quanto possano essere inaffidabili, parziali, modificabili, mutevoli. Per lavoro mi è capitato di fare interviste a persone dopo avvenimenti epocali per la loro vita: ho lavorato per anni alla ricostruzione post alluvione in Piemonte, e mi colpiva sempre come i ricordi delle persone, anche solo su dove era arrivata l’acqua che gli aveva invaso la casa, portato via gli oggetti e ucciso il bestiame, fosse sempre parziale, a volte davvero inaffidabile. Come ho sempre ritenuto inaffidabile la mia di memoria, e i ricordi che ne conseguono. Poi certo, c’è un legame forte anche con i luoghi. Quando si è trattato quindi di costruire un presente alla storia, mi è venuto naturale ambientarlo in un luogo che conoscevo bene, e quindi l’isola di Ortigia, e costruire una storia di ricerca che fosse non solo nel tempo, ma anche nello spazio.

Camminare sulle impronte del passato non è mai una buona idea. Si finisce per scoprire che il passato non esiste, non in quella forma in cui lo abbiamo sempre pensato.

La vicenda ruota alla figura di Elena, una giovane che, nel momento di passaggio tra la scuola superiore e l’università, si trova a fare i conti con l’allontanamento della mamma: un rapporto, quello tra le due, già fortemente segnato negli anni precedenti, quando la donna aveva iniziato a trascorrere le giornate chiusa nella sua stanza, contornata di pile di libri che muoveva secondo una sua logica. E proprio attraverso questi cambiamenti Elena provava a comprendere i mutamenti della madre, tenendone conto su delle mappe numerate che conserva con sé, e che aggiorna ogni qual volta può avere segretamente accesso alla stanza della madre. Fin quando l’allontanamento della madre non diventa anche fisico: un giorno, infatti, sparisce senza lasciare traccia, ed Elena inizia un percorso lungo l’isola di Ortigia, dove i passi sui viottoli dell’isola corrispondono ad un cammino sui sentieri più interni e personali della ragazza, alla scoperta di quanto stratificato dentro di sé.

E la memoria è un elemento molto presente all’interno de Le isole di Norman, dove la vita dei personaggi viene profondamente caratterizzata da quanto vissuto nel loro passato. Memoria e passato, che hanno delle importanti valenze anche per l’autrice stessa.

Ho un rapporto molto complicato con il passato, e con i ricordi, è una cosa che ho capito ancora di più scrivendo questo libro. È come se il passato io lo accumulassi, ma non mi riguardasse mai. Non mi guardo indietro, non conservo nulla, ho girato così tante città prima di arrivare a Livorno, e case, e lavori, e persone, e ambienti pure. Forse, mi vien da dire adesso, del passato ho sempre avuto paura, proprio come Elena. Paradossalmente, scrivendo questo libro, tanti miei rovelli si sono calmati. Forse la frase della quarta di copertina è quella che sento più intimamente autobiografica.

Probabilmente sono proprio i ricordi, la memoria, il passato dei protagonisti, a conferire al libro una tridimensionalità davvero unica: questi, si fondono con gli elementi della Storia, quella studiata sui libri, che si innesta meravigliosamente con la vicenda narrata.

Il legame alla storia quella con la esse maiuscola, e quindi i riferimenti al mondo aperto attorno a una famiglia invece così chiusa nella propria vicenda, è una cosa che mi viene naturale fare, e che in qualche modo faccio sempre. Riguarda la mia vita come essere umano, prima di tutto, in cui il mondo e i suoi avvenimenti (ho una discreta passione per la storia, per la politica) si mescolano sempre con la mia storia personale.

E l’idea di come la storia, in questo caso personale, possa avere un impatto sul presente e sul passato di ciascuno di noi, è alla base della stesura del libro: un percorso complesso, passato attraverso diversi tentativi di scrittura, che sono sfociati in questo capolavoro letterario.

Ho cominciato a scrivere Le isole di Norman dalle parti che riguardano il passato della bambina, una serie di episodi che ruotavano attorno all’incidente che le era accaduto, avendo già chiaro che desideravo che fossero episodi staccati fra loro, sconnessi, come emersioni, bolle che salivano in superficie da un mare apparentemente calmo. A un certo punto ho capito che mi interessava studiare come quell’incidente potesse riverberare negli anni, nella vita di Elena, la protagonista, e in quelle dei suoi familiari, il padre, la madre. Così ho costruito una seconda storia, cronologicamente lineare, all’interno della quale gli episodi del passato potessero affiorare come dicevo prima. Il lavoro grande di costruzione è stato proprio per questi innesti, per trovare un senso, anche se solo mio, anche se a volte forse criptico, fra la storia di Elena nel suo presente e i suoi ricordi del passato. Ho fatto diversi tentativi, e diverse stesure, fino a trovare una quadra che mi convinceva.

Leggendo Le isole di Norman, poi, ci si imbatte in molte citazioni letterarie, a volte più dirette, altre più celate. I libri, inoltre, ricoprono un ruolo molto importante all’interno della vicenda: Elena, infatti, cerca di comprendere i mutamenti della madre attraverso gli spostamenti che questa opera nelle colonne di libri impilati nella sua stanza.

Io sono una lettrice, prima ancora che una scrittrice, e questa è una cosa che affermo con forza e convinzione, e anzi, cerco di mantenere nel mio essere lettrice quello sguardo puro di chi si appassiona a una voce, a una storia, a una lingua, cercando di tenere a bada il lato di chi i libri li scrive, e quindi inevitabilmente tende a smontare quelli che legge, a osservarne i meccanismi. Ma no, in fondo non corro questo rischio: quando mi metto a leggere provo ancora quello che provavo da bambina, chiusa nella mia stanza. I titoli che possono esserci dentro sono davvero tanti, e poi i libri hanno questo di meraviglioso, quando fanno parte della tua vita, che ti influenzano anche senza che tu te ne renda conto. Posso però dire alcuni dei libri a cui pensavo, quantomeno scientemente, mentre scrivevo Le isole di Norman. C’è L’isola del Tesoro di Stevenson, ovviamente; c’è La trilogia della città di K di Agota Kristof, L’amore molesto di Elena Ferrante, Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, che appare anche nell’esergo.

Le isole di Norman rappresenta sicuramente un interessantissimo porto letterario dove attraccare, per spaziare alla scoperta dell’isola di Ortigia, ma anche di noi stessi.

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