di Ciro Teleffe
Un giorno stavo in stazione e sono entrato in libreria. Ehi, ehi, non avevo strane idee, né alcuna intenzione di comprare rischiando di rovinare la statistica sugli italiani che non leggono: volevo solo indignarmi per la merda dei titoli più esposti. C’erano libri di cantanti, comici, soubrette, politici, tronisti, influencer e l’immancabile Alchimista di Paulo Coelho.
Insomma, ero lì a pensare “Guarda qua, guarda! Tutta spazzatura!”, quando trovo questa bella copertina, un libricino dalle dimensioni per nulla impegnative intitolato Pizzeria Kamikaze. Io ho dimestichezza con poche cose, fra queste ci sono le pizzerie e i suicidi, quindi mi sono detto: “Questo libro lo devo leggere”, e sono scappato via. Ora, quando mi hanno chiesto un titolo da recensire, ho colto la palla al balzo ed eccoci qui.
C’è da dire che venivo da una lettura stucchevole, un libro un po’ esibizionista, uno di quelli che per dire, ad esempio: “Vado da qui a lì”, preferisce dire “Vado, o forse no, dovrei, sono già lì col pensiero, eppure sono qui, sarò, mentre sono, mi perdo – o forse mi sto trovando –, sì, certamente mi sto scovando, covando rimorso per il me stesso che lascio, eccomi giunto, sono un altro”.
Insomma mi stavo facendo la bocca amara e Pizzeria Kamikaze è stato come un bicchiere d’acqua fresca dopo un pessimo caffè. L’autore, che si chiama Etgar Keret, scrive in modo semplice e diretto, va da qui a lì senza fronzoli, anche se va in posti assurdi, e questo mi piace. Un esempio?
Le ragazze con cui uscivo si offendevano se davo loro una sbirciatina all’utero. Pensavano fosse una specie di mia perversione e che non facesse bene al romanticismo. Una di loro però, decisamente ben fatta, acconsentì a sposarmi. Avemmo dei figli che io picchiavo spesso, fin da piccoli, perché il loro pianto mi innervosiva.
Un altro esempio?
Tra tutti questi soggetti c’è anche Ian, un olandese svanito che ieri mattina è uscito di casa armato di retino per farfalle dicendo che andava nel bosco a catturare un nuovo cane per Kneller e da allora se ne sono perse le tracce.
Un altro esempio? No, basta.
È una scrittura un po’ Kamikaze, appunto: sembra – dico sembra – non sappia neanche dove voglia andare a parare. (AnKE Se i kAmiKAzE Lo sAnNo, Lo sO!1!!)
Sono nove racconti. Il titolo prende spunto dal più lungo di questi: “Il centro vacanze di Kneller”, in cui il protagonista trova lavoro alla Pizzeria Kamikaze due giorni dopo essersi suicidato, (anche se poi non ci lavora mai eh! È solo un bel titolo. Poi lui va in giro in questo luogo – che è “Francoforte sputata” – dove finisce la gente che si suicida).
D’altronde, in questi racconti si finisce quasi sempre in un aldilà o in un altrove. Succede attraversando tubi, entrando in un “buco sperduto dell’Uzbekistan”, o ammazzandosi, ovviamente. E si ha spesso a che fare con esseri ultraterreni.
Insomma, io lo consiglio: è un esserino ultraterreno, è entrare in un altrove, è un buco sperduto dell’Uzbekistan.