Due “vestiti” Inediti di Luca Murano

Chi siamo quando nessuno ci osserva? Possiamo davvero sentirci al sicuro? È realmente plausibile, in tali circostanze, riuscire a indossare e sfoggiare la parte più limpida di noi stessi? I protagonisti dei racconti di Luca Murano prendono vita tra le pagine col desiderio di rispondere a queste domande, compiendo azioni apparentemente insignificanti e che invece restituiscono alle storie autenticità e tutta la grazia che può nascondersi dietro le banalità, le paure, le sofferenze e le speranze di cui sono intrinseche le loro esistenze.
Una raccolta di outfit dimenticabili, ma di reazioni e gesti indimenticabili perché radicati in profondità in ognuno di noi. Uomini e donne sull’orlo della perdizione, studenti squattrinati, scrittori precari, giocatori d’azzardo, genitori sciagurati e figli egoisti che, con ironia e disincanto, scavano a fondo nella loro interiorità solo per scoprirsi vulnerabili, fallibili e, proprio per questo, umani.

Per gentile concessione di editore e autore, vi proponiamo due racconti.


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Lavorava come cameriere in quel ristorante da circa due mesi, ma a lui erano sembrati lunghi come due anni. Ancora due giorni, invece, e avrebbe comunicato ai suoi genitori di essersi ritirato dall’Università. Poi, aveva giurato a sé stesso, avrebbe ricominciato tutto daccapo. Niente scherzi stavolta.
Un capello, disse il cliente con una punta di disappunto. C’era un capello nella sua vellutata di zucca. Il ragazzo immaginò di prendere la pietanza e rovesciargliela in testa. Nel mondo reale, però, si scusò diligentemente e riportò indietro il piatto. Una volta in cucina, si guardò bene dal farglielo rifare: tolse con le dita quel capello dalla zuppa e lo lanciò nel bidone dei rifiuti. Lo guardò piroettare in quell’immenso recipiente e finire la sua corsa su tutti quegli avanzi di cibo con i quali avrebbe potuto sfamarsi per giorni. Aspettò qualche minuto disimpegnandosi alla cassa. Preparò il conto a un cliente; poi a un altro e a un altro ancora. Finì un po’ lungo insomma, e solo quando staccò l’ultimo scontrino riuscì a tornare in cucina per afferrare il piatto e portarlo in sala. Ma ormai era tardi: la vellutata era già fredda, immangiabile disse l’uomo al tavolo. Il cameriere, falso come una banconota da sei euro, si finse cortese e desolato, ritirò il piatto e tornò sui suoi passi. Entrò come una furia in cucina intimando ai cuochi di preparare un’altra cazzo di vellutata di zucca. Una volta pronta, il ragazzo, di nascosto, ci sputò dentro. Un grosso bolo di catarro giallognolo che si sposò piuttosto bene con il colore della zucca. Mescolò un poco col dito e tutto soddisfatto tornò in sala. Questa volta non ci furono intoppi, l’uomo mangiò tutto, fino all’ultimo cucchiaio, mentre fra un servizio e l’altro il cameriere sbirciava sadicamente. Quando fu il momento di pagare il conto, il distinto signore gli lasciò una lauta mancia, la più alta che avesse mai ricevuto. La cosa lasciò in qualche modo un segno sul ragazzo che, intanto, si era avvicinato al tavolo del cliente per sparecchiarlo. Indugiò un istante prima di iniziare. Poi accadde che si morse il labbro fino a farselo sanguinare. Subito dopo, prese posto sulla sedia abbandonata, afferrò la bottiglia e versò nel bicchiere sporco l’ultima goccia di vino rosso che restava. Mentre beveva, percepì nella bocca il sapore ferroso del sangue mischiarsi con quello più pastoso e tannico del vino. Non sentì la voce sdegnata del caposala che gli intimava di alzarsi e di tornare a lavorare.

I Giganti

Provai goffamente a posare il libro che credevo di avere tra le mani. Contemporaneamente tentai di spegnere la luce dell’abat-jour e dormire. Ma a tenermi compagnia su quel letto, a parte te, non c’era nessun libro, nessuna luce accesa. Solo il buio e sullo sfondo il ronzio dei miei pensieri che, in qualche modo, mi aveva tenuto ancora connesso a quelle pagine. Mi era sembrato di essere io stesso le cose di cui quel romanzo parlava: un viaggio alla ricerca di risposte; la caccia ai bisonti; la spoglia cittadina di Butcher’s Crossing; il fiume che dà e il fiume che toglie.

Fantasticando proprio sullo Smoky Hill River del romanzo, penso all’acqua del nostro fiume, che scorre fuori dalla finestra lontano poche decine di metri. Scorre sotto le rocce e le radici degli alberi del parco dell’Anconella, e con lui scorriamo anche noi e il tempo, mai uguale a prima, anche se troppo spesso ci piace pensare di essere immutabili ed eterni, impermeabili a qualsiasi cambiamento. É sull’acqua che mi soffermo e che rimugino, mentre con gli occhi socchiusi provo a inseguire un sonno che non si vuol fare acciuffare. E non è un caso che proprio l’acqua sia l’elemento presente in tutti i luoghi che hanno tenuto a battesimo il nostro ingenuo sentimento: l’Arno nella sua declinazione fiorentina, e quello che invece lambisce le spallette pisane. E poi l’acqua del mare, quello di Napoli e di Livorno. Nell’acqua dolce e trasparente e in quella salmastra e spumeggiante ci siamo riconosciuti e in qualche modo scelti scacciando la strana nostalgia del viaggio che si ha paura di non fare mai, in questa sola vita che abbiamo. Questo ho pensato, guardandoti dormire stanotte nella minuscola casa di Firenze, troppo piccola per noi due giganti. E mentre la città si addormenta docile, e l’odore umido del fiume entra nella stanza avvolgendo i muri, io sbircio dalle persiane le case davanti, mi immagino le vite ‘altrui’, e mi rammarico un po’ di saper empatizzare così poco con l’altra metà del mondo là fuori. Ho tentato di rimboccarti le coperte, stropicciate ai piedi del letto; mi son chinato silenzioso su di te, sfiorandoti quasi i capelli con le dita, ma ho lasciato perdere tanto era reale il timore di svegliarti. Alle mie spalle la finestra, e dietro ancora quel fiume che, nel bene e nel male, può travolgerci e risucchiarci.

Guidato unicamente dalla luce della luna mi sono alzato e ho fatto un po’ di ordine. Ho raccolto le tue scarpe dal pavimento, la camicetta bianca e i jeans che ti avevo strappato di dosso solo poche ore fa, prima di fare l’amore. Mentre mi muovevo nella stanza guidato da questo inaspettato impulso mi è sembrato di rassettare anche me. Mi sono raccolto dal pavimento assieme a un paio di calzini appallottolati, cercando di non svegliarti e di non sentire la tua mancanza. Ho messo tutte queste sensazioni preziose in una scatola dentro la mia testa, sbirciandoti nell’oscurità ancora una volta, per vedere, per non dimenticare più questo istante, il nostro amore ancora acerbo ma incondizionato. Mi sono coricato, a pochi centimetri dai tuoi fianchi, e ho guadato il tuo viso buono. Mi sono commosso nel sentirti addosso una delle mie magliette e, poco più in là, sul comodino, ho scorto il libro di John Williams e un foglio di carta con queste poche righe scritte a penna. Ho inspirato forte il tuo sapore di vaniglia e tabacco, per non dimenticarmi di noi, e di Napoli, quando alla fine di questo viaggio ci dissolveremo come nuvole sopra il mare, e allora torneranno tutti assieme, per un momento, gli odori, i sapori, il salmastro che, tu ed io insieme, abbiamo sentito e assaporato nella vita.

La Nostra.

Luca Murano nasce al nord (Lodi) da genitori del sud (Salerno) e attualmente vive al centro (Firenze). Oltre a curare il suo blog di scrittura, Vai come sai, negli anni ha pubblicato racconti su molte riviste letterarie, fra cui: ‘tina, Risme, Malgrado le Mosche, Bomarscé, Spazinclusi, Streetbook Magazine, Blam!, Quaerere, Voce del Verbo, Rivista Waste, Inchiostro, Mirino, Downtobaker, CrunchEd, Grande Kalma, birò, E(i)sordi, il Fuco e The Bookish Explorer. Ha all’attivo due pubblicazioni, “Pasta fatta in casa – sfoglie di racconti tirate a mano” (Bookabook, 2018) e “I vestiti che non metti più” (Dialoghi, 2021). Suona il basso nei My Hard Reset.

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