Franz Kafka diceva Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi.
E proprio questa è la sensazione che lascia la lettura di Limite Bianco, scritto da Antonella Dilorenzo, e pubblicato da Scatole Parlanti.
Un romanzo di grande impatto emotivo, dove il protagonista, Carl, un ragazzo di dodici anni adottato da Elisa e Achille, si trova a dover affrontare un’infanzia difficile in una grande città come Roma: la sua pelle nera lo rende vittima di bullismo da parte di alcuni dei suoi compagni di scuola, che lo prendono di mira tendendogli degli agguati. Un giorno, però, Carl scopre di avere una dote atletica fuori dal comune, e spinto dal suo insegnante di educazione fisica, inizia ad allenarsi per migliorare nella corsa. Ma quando la carriera sportiva di Carl sembra ormai essere ben avvitata, la morte del padre cambierà nuovamente il destino del ragazzo e di sua madre.
Un libro che non è una semplice storia, ma un romanzo dove vengono trattate alcune importanti e complesse domande come il bullismo e il razzismo.
L’idea di scrivere “Limite bianco”, racconta l’autrice, è partita da un’esigenza nata spontaneamente e che risiede in me da sempre: superare i limiti mettendomi in gioco. E quali tematiche migliori di bullismo, razzismo, paura di affrontare l’ignoto potevano essere azzeccate a colmare questo mio buco emotivo? Tutto, poi, si è concentrato nell’attualità che è stata la forza motrice che ha messo in circolo questa storia.
Alla base dei problemi di inclusione di Carl c’è il colore della sua pelle, diverso da quello dei suoi compagni, e tutte le difficoltà che incontra un ragazzo adottato ad essere accettato dalla società moderna.
Una tematica che Dilorenzo ha affrontato con grande delicatezza e lucidità, sapendo restituire al lettore la corretta dimensione di qualcosa che troppo spesso viene alterata dalla moltitudine di luoghi comuni che l’accompagnano.
L’adozione è uno scoglio burocratico ed emotivo ancora difficile da superare. Sappiamo quanto sia difficile adottare e sappiamo anche quanto sia faticoso essere figli e genitori adottivi nella società di oggi. Spesso si viene etichettati come famiglie a metà, come se la naturalezza di un parto e di un concepimento fossero gli unici motivi per ritenersi genitori o figli. Esistono madri e padri anche senza figli. È quello che siamo a essere vero, non quello che ci dicono di dover essere.
Prendo a prestito le parole di Chiara Gamberale che mi tornano in mente quando mi pongono questa domanda: “Famiglia è dove famiglia si fa”. Questo discorso è estendibile a qualsiasi tipo di nucleo familiare.
Volevo che la storia di Carl fosse la voce anche di questo aspetto. Elisa e Achille sbagliano con Carl, parecchio. Ma lo fa anche lui. E la mia idea è stata proprio quella di dimostrare che un genitore o un figlio, naturali o adottati che siano, possono essere “normali”, uguali a tutti. Si sbaglia e ci si comporta correttamente in tutti i casi. Siamo umani. Siamo imperfetti. Siamo uguali e diversi allo stesso tempo. Sta qui, il bello dell’umanità.
Tutti i personaggi di “Limite bianco” si trovano a fare i conti con una personale storia di riscatto: non solo Carl, che deve superare le problematiche razziali, ma anche i suoi genitori, che, per motivi diversi, vivono alla ricerca di un cambiamento che possa riscattare la loro esistenza.
Un elemento, questo, molto sentito dall’autrice, che ci racconta il legame con la propria storia personale.
Venendo da una famiglia umile e da una storia personale in cui il sacrificio e la caparbietà sono stati gli elementi fondanti per farmi andare avanti e raggiungere i miei traguardi, direi che il riscatto rappresenta uno dei motori della mia esistenza stessa. È attraverso la ricerca del riscatto che passa tutto: la formazione del carattere, l’essenza della vita, la creazione di qualcosa di puramente personale, in cui si fanno i conti con se stessi, e in cui si impara a conoscere quello che risiede nell’involucro del nostro corpo.
Un romanzo articolato e complesso per le tematiche trattate, arrivato sugli scaffali delle librerie dopo un percorso di stesura estremamente puntuale e attento, che ha messo in luce tutte le capacità stiliste e narrative dell’autrice.
Diciamo che, per certi versi, non è stata una scrittura “di getto”, come si sente spesso dire nel linguaggio letterario. La mia è stata una scrittura un po’ ragionata – inizialmente – un po’ di pancia, in fase di stesura vera e propria. Ho creato una scaletta di eventi e situazioni, mi sono avvalsa anche di un excel per incastrare storie, personaggi, cercare di tenere a mente i conflitti di ognuno e non andare mai oltre la soglia della credibilità. Quando ho avuto l’impianto pronto, sono andata avanti nella stesura ed è lì che ho lasciato che le emozioni prendessero in mano le redini di tutto. Credo che equilibrio tra ragione e cuore sia la cosa fondamentale da tenere presente: a tempo debito ognuno fa la sua parte, anche nella scrittura.
Ormai disponibile da alcuni mesi, “Limite bianco” ha avuto un ottimo riscontro da parte della critica e dei lettori, che ne hanno apprezzato le importanti tematiche trattate e come queste siano state integrate all’interno della storia. Un aspetto che la stessa Dilorenzo analizza alla luce dei riscontri ricevuti dalla pubblicazione fino ad oggi.
Integrazione, bullismo, razzismo, sentimenti. Credo siano stati pienamente presi in considerazione. Forse su un paio di punti, in fase di analisi del mio romanzo, avrei insistito di più: la figura di Jesse Owens legata allo sport e il tema delle ossessioni.
Mi sarebbe piaciuto, invece, che fosse venuta maggiormente fuori l’importanza di figure emblematiche, quasi magiche, che sono di fondamentale importanza nella vita delle persone, soprattutto quando si tratta di percorsi di formazione e crescita. E di quanto questo passi anche attraverso lo sport. Non esistono solo i genitori come educatori principali nella vita di una persona. Ci sono i coach nello sport, ci sono educatori in altri ambiti. Quello che mi piace che arrivi è che noi siamo non solo quello che per natura ci è stato concesso, ma anche quello che diventiamo grazie agli ambienti che frequentiamo e alle persone che incontriamo. Nel bene e nel male. Sì, un ranocchio può diventare un principe e sì, Martin Eden può diventare un grande scrittore.
Mi sarebbe piaciuto, inoltre, che venisse data maggiore attenzione all’aspetto legato alle ossessioni. Uno dei personaggi principali, Giorgio Pagri, gioca d’azzardo ed è un collezionista ossessivo. Questo dimostra quanto noi individui siamo fatti di corpo e sentimenti, quanto non possiamo e non siamo delle macchine, e la mania del controllo decade nel momento in cui riconosciamo l’esistenza dei limiti (benedetti limiti!) e di quella imprevedibilità che ci rende umani: deboli e forti dinnanzi alla vita.
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