Del libro di Tiziano Rugi abbiamo scritto qualche settimana fa: Bergamo Anno Zero racconta medici e operatori sanitari che hanno affrontato in prima linea l’emergenza Covid-19 e hanno assistito impotenti al dilagare del virus nella città di Bergamo. Per gentile concessione dell’autore e dell’editore oggi vi proponiamo un estratto dell’introduzione. In un anno così faticoso pensiamo sia necessario condividere il ricordo e la memoria di una città simbolo come è (e sarà) Bergamo. Buona lettura.
di Tiziano Rugi
Torna a casa e sente un indefinito senso di colpa sulla coscienza e l’angoscia non lo abbandona nemmeno nel sonno. Da alcune settimane, è diventato un mentitore seriale. Si siede sul letto che è alba e pensa a quella donna di 83 anni a cui poche ore prima ha staccato la macchina per l’ossigeno.
Parametri vitali compromessi, ha detto il medico. Nemmeno il ricovero in terapia intensiva può darle una speranza. L’anziana, però, anche se è in fin di vita non ha mai perso lucidità per tutto il periodo del ricovero. E ha paura. Parecchia, tanto da aver implorato Raffaello di salvarla, il giorno che è entrata in ospedale.
Potrebbe averlo chiesto a chiunque altro, visto che gli infermieri sono quasi irriconoscibili: camice di protezione, mascherina, visiera, gli occhi come unico strumento di comunicazione. Il caso ha voluto, invece, che lo chiedesse proprio a lui. La stessa persona che adesso sta per staccarle il casco Cpap per la ventilazione che la tiene in vita.
È sveglia quando si avvicina. Raffaello la guarda negli occhi e le dice: «Hai visto? Non ti ho raccontato bugie, ti tolgo il casco… adesso stai meglio, te lo avevo promesso che ti saresti salvata». La donna sorride, lo ringrazia con un esausto sorriso, perché quando respiri da una macchina per l’ossigeno hai la sensazione di viaggiare su una moto a cento chilometri all’ora con la bocca aperta, e a lei inizialmente sembra davvero di respirare meglio. Se ne andrà due ore dopo, senza soffrire e accorgersene, perché è stata accompagnata con dei sedativi.
È stata solo una bugia pietosa, ma Raffaello ha paura di rivedere l’anziana quando si sarà addormentato. Perché questo succede sempre più spesso la notte: sogna i pazienti morti. Il vescovo ha chiesto ai medici e agli infermieri cattolici che se la sentono di dare l’estrema unzione ai malati in fin di vita: sono loro gli unici a essere accanto ai pazienti fino all’ultimo istante. Raffaello ha accettato: fa il segno della croce, recita una breve preghiera e nel momento della morte chiude i loro occhi.
Quando nel sonno rivede i volti, però, hanno sempre gli occhi spalancati. E iniziano a essere tanti questi volti. Non ricorda il giorno esatto, ricorda che era una notte di due settimane prima, quando il virus iniziava a tormentare Bergamo e l’Italia da pochi giorni era in lockdown. Nel reparto Covid in cui lavora avevano perso quattro pazienti.
È l’alba e Raffaello a fine turno si avvicina a un collega al telefono. Non hanno sacchi salma per le persone decedute e il collega tenta di farseli mandare da altri reparti. Ma da ogni piano dell’ospedale arriva sempre la solita risposta: «Anche noi abbiamo avuto parecchi morti stanotte e non ne abbiamo altri».
I due vivono da giorni isolati nel loro reparto da 48 posti letto, senza quasi nessun contatto con l’esterno e non sanno cosa succede nel resto dell’ospedale. È una doccia fredda che li mette in contatto con la realtà: non sono i soli ad avere malati gravi. Si guardano preoccupati: «Che cazzo sta succedendo?» gli domanda Raffaello, o forse lo domanda a se stesso.
Anche quella mattina fu preso dall’angoscia. Rivive ogni attimo: lui che entra in casa, crolla sul divano e comincia a raccontare alla moglie dei cadaveri che ha dovuto caricare sulle barelle. Pure lei è infermiera al Papa Giovanni XXIII di Bergamo, la figlia maggiore ha scelto la stessa professione dei genitori e in quel momento è in ospedale: «Moriremo anche noi?» chiede la donna. «Non lo so, possiamo solo continuare a fare il nostro lavoro» è l’unica cosa che riesce a dirle per rassicurarla.
Adesso, a tre mesi di distanza, Raffaello Baitelli ha più tempo da dedicare a se stesso e ha trovato un modo per tentare di affrontare quello che ha vissuto. Scrive brevi poesie, non più di quattro versi, e dà voce a tutte le inquietudini che affollavano la sua mente e nei giorni dell’emergenza non aveva il tempo né di scacciare né di razionalizzare. Sono incubi dove parla di serpenti dalla cui stretta non ci si può liberare, di pazienti identici come androidi rinchiusi in una bolla, di volti allucinati e stanchi di trasportare cadaveri, di respiri affannosi e disperati.
Non sono pensieri e immagini differenti da quelli con cui convivono ancora migliaia di medici e infermieri che hanno retto l’onda d’urto del Covid-19 tra marzo e aprile. A Bergamo, a Brescia, a Cremona, a Lodi, a Milano, in Veneto, in Emilia-Romagna. Perdonami, ma siamo molto stanchi, mi dice un medico di pronto soccorso e ha la voce insicura di chi sta piangendo quando condivide con me emozioni e ricordi.
Anche chi di noi non è stato in prima linea, non ha avuto la sfortuna di perdere un familiare, un amico, difficilmente si libererà da alcune immagini legate a quei mesi. Immagini talmente potenti nel bene o nel male da essere diventate iconiche.
La sterminata colonna dei mezzi dell’esercito che la sera del 18 marzo trasporta decine di bare dal cimitero di Bergamo nei forni crematori di altre città. L’infermiera stremata che si addormenta con le braccia e la testa su una scrivania con ancora indosso il camice e la mascherina o le foto degli infermieri con i lividi sul volto fatti dagli occhiali protettivi portati per troppe ore consecutive.
La solitaria preghiera di papa Francesco sotto la pioggia in una San Pietro buia e deserta immersa in un evocativo silenzio, l’orgoglioso incedere del presidente della Repubblica Sergio Mattarella con la mascherina sul volto davanti all’altare della Patria dopo aver reso omaggio ai caduti nel giorno della Festa della Liberazione. E la bellezza spettrale dei luoghi più famosi d’Italia, da piazza del Duomo a piazza Navona, sottratti al caos vitale che quotidianamente li accompagna. Ci dicono più queste immagini su cosa abbiamo provato nei mesi dell’emergenza Covid di tante discussioni spesso sterili e contraddittorie.
Le immagini e i numeri. Numeri imparziali e dolorosi che fotografano la dimensione dell’accaduto. Nei due mesi della cosiddetta fase uno, dalla scoperta del primo caso a Codogno al 4 maggio, data in cui c’è stato il primo allentamento del lockdown, in Italia hanno perso la vita 26.892 persone, di cui più di 14mila nella sola Lombardia. A Bergamo a marzo i decessi sono aumentati del 568 per cento rispetto alla media degli anni precedenti.
Mentre sto scrivendo i morti hanno superato quota 35mila, ma fortunatamente il virus fa meno male. E negazionisti nutriti di social, politici che si nutrono di negazionisti per interessi elettorali alzano la voce: «L’impressione è che finita la tempesta dimenticheremo troppo presto quanto sia stata grave. Non sono confidente in una gratifica per il nostro lavoro che duri nel tempo. Da eroi a delinquenti il passo è breve» mi confessa amareggiato un medico che ha vissuto quei mesi in corsia.
Medici, infermieri, operatori socio sanitari nemmeno vogliono essere chiamati “eroi”. Forse avrebbero voluto esserlo perché gli eroi, almeno nel senso che comunemente diamo alla parola, non hanno fragilità, loro invece sì. Nessuno di loro veniva da scenari di guerra o aveva combattuto l’Ebola in Africa. Nessuno era abituato a vedere così tanti morti insieme, anche se la morte è la quotidianità nel lavoro di un medico. E anche Achille, il più insensibile degli eroi, diventa umano davanti al dolore di un padre che ha perso il figlio.
Eppure hanno svolto il loro dovere con spirito di dedizione e hanno messo a rischio la loro stessa vita, in alcuni casi pagandone il prezzo mentre assistevano, impotenti ma non rassegnati, al dilagare del virus.
«Questo s’impara in mezzo ai flagelli: che negli uomini ci sono più cose da ammirare che da disprezzare» scrive Camus nella Peste. Ciascuno li chiami come preferisce, ma nessuno neghi l’importanza del loro lavoro. Se il sistema ha retto e il Servizio Sanitario Nazionale, messo alla prova da un evento drammatico e inatteso, anche se probabilmente non imprevedibile, è stato capace di reagire è grazie soprattutto a loro.
Il libro s’intitola Bergamo anno zero e il titolo si ispira a Germania anno zero di Roberto Rossellini. «L’anno zero è l’anno del cominciamento, dell’inizio, della nascita» ha detto il regista Luc Dardenne durante una conferenza in cui parlava del film del collega italiano «e il cominciamento di tutto è il coraggio».
Dal coraggio di chi è stato in prima linea e ha assistito i malati nelle loro abitazioni o ha affrontato il virus negli ospedali inizia il racconto dei mesi che sconvolsero questa laboriosa provincia lombarda. Alle testimonianze dei medici di famiglia e dei medici dell’ospedale Papa Giovanni XXIII, ho aggiunto le voci dei colleghi del Poliambulanza di Brescia, che a pochi chilometri di distanza hanno vissuto un dramma analogo.
Mi piace pensare alle due città come le ha rappresentate l’illustratrice bresciana Sara Nicoli: l’orgogliosa dea cacciatrice Atalanta, divenuta emblema di Bergamo per la sua squadra di calcio, abbraccia una leonessa, simbolo di quella Brescia abituata a resistere che per dieci giorni durante il Risorgimento tenne testa agli austriaci e per questo fu soprannominata “Leonessa d’Italia”. Come se quell’abbraccio potesse curare il dolore e le ferite.
Bergamo Anno Zero: un estratto dal libro
