Esattamente quarant’anni fa, il 6 luglio 1980, venne pubblicato in Italia per la prima volta Guida galattica per gli autostoppisti, di Douglas Adamas.
Il romanzo uscì come numero 843 della collana Uraniae all’epoca veniva venduto al prezzo di 1000 lire.
Il volume è l’adattamento delle prime quattro puntate dell’omonima serie radiofonica, trasmessa dalla BBC a partire dal marzo del 1978, e che arrivò sugli scaffali delle librerie d’oltremanica nell’ottobre del 1979.
A distanza di quattro decenni, Guida galattica per gli autostoppisti resta, insieme agli altri quattro libri che completano il ciclo, uno dei punti di riferimento della lettura di genere: il suo stile e la sua struttura, infatti, sono una pietra miliare nella letteratura fantascientifica umoristica.
Ma non solo: al suo interno ci sono anche alcuni particolari che hanno letteralmente precorso i tempi. Basti pensare che la Guida, che accompagnerà Arthur, il protagonista della vicenda, non è altro che un libro in forma di un piccolo computer, quasi una sorta di ebook a comando vocale, immaginato quando quello che oggi è la normalità poteva essere solo descritto all’interno di un libro di fantascienza.
Un testo assolutamente geniale, del quale vi proponiamo l’incipit, per la rubrica Liberi Inizi, in occasione di questo particolare anniversario.
La casa sorgeva su un lieve rialzo, proprio all’estremo limite del paese. Era isolata, e dava su un’ampia distesa agricola nell’Inghilterra sudoccidentale. Era una casa di nessun conto: aveva circa trent’anni, era di mattoni, quadrata, bassa, con quattro finestre sul davanti la cui grandezza e proporzione non erano proprio studiate per piacere all’occhio.
L’unica persona che considerava speciale quella casa era Arthur Dent, e per un semplice motivo: che guarda caso era lì che abitava. Ci abitava da circa tre anni, fin da quando, cioè, vi si era trasferito da Londra, città che lo rendeva nervoso e irritabile. Anche lui, come la casa, aveva trent’anni: era alto, aveva i capelli scuri, ed era sempre inquieto. Quello che lo irritava di più era il fatto che la gente insisteva a chiedergli per quale ragione fosse così irritato. Arthur Dent lavorava per una radio locale che, come lui diceva sempre ai suoi amici, era molto più interessante di quello che loro immaginavano. E lo era, in effetti (visto che la maggior parte dei suoi amici lavorava nella pubblicità).
La notte del mercoledì aveva piovuto molto forte e il viottolo era pieno d’acqua e fangoso, ma il giovedì mattina il sole splendeva chiaro e vivido sulla casa di Arthur Dent. Splendeva per quella che era destinata a essere l’ultima volta.
Arthur infatti aveva appena saputo che il consiglio comunale aveva deciso di abbattere la sua casa per farci passare una tangenziale.
Alle otto di mattina di giovedì Arthur non si sentiva molto bene. Si svegliò e, tutto intontito, si alzò e si mise a vagare per la camera da letto: aprì la finestra, vide un bulldozer, infilò le ciabatte e con passo pesante andò in bagno a lavarsi.
Dentifricio, spazzolino, denti, e via.
Lo specchio da barba era rivolto al soffitto. Arthur lo risistemò, e per un attimo ci vide riflesso un secondo bulldozer, al di là dalla finestra del bagno. Ora lo specchio rifletteva la barba, e Arthur si rasò, poi si sciacquò e andò in cucina a cercare qualcosa di buono da mettere sotto i denti.
Bollitore, gas, frigorifero, latte, caffè. Sbadiglio.
La parola “bulldozer” vagò nella sua mente per un attimo, alla ricerca di eventuali collegamenti.
Il bulldozer che si vedeva dalla finestra della cucina era particolarmente grande.
Arthur lo fissò.
“Giallo” pensò, e tornò in camera da letto per vestirsi.
Passando dal bagno si fermò a bere due bei bicchieri d’acqua. Cominciò a sospettare di stare smaltendo una sbornia. Ma come mai…? Si era ubriacato, la notte prima? Evidentemente sì, pensò di nuovo. Si guardò un attimo allo specchio. “Giallo” pensò di nuovo, e andò in camera da letto.
Si fermò un attimo a riflettere. Gli venne in mente il pub. Oh sì, proprio il pub. Vagamente, si ricordò di essersi arrabbiato, arrabbiato per una faccenda che doveva essere importante. Ne aveva parlato con la gente, ne aveva parlato a ruota libera con la gente che stava al pub, gli parve di ricordare: gli tornarono in mente gli sguardi vitrei delle altre persone. La faccenda riguardava una tangenziale. Ed era una faccenda che lui aveva appena scoperto. Nei canali d’informazione più riservati era nota già da mesi, anche se sembrava che nessuno ne fosse mai stato informato. Ridicolo. Ma si sarebbe risolta da sola, pensò Arthur: nessuno voleva quella tangenziale, e il consiglio non aveva niente cui appigliarsi per far passare la cosa. Sì, la questione si sarebbe risolta da sola.
Dio, ma che terribile sbornia si era preso! Arthur si guardò allo specchio dell’armadio e tirò fuori la lingua. “Gialla” pensò. La parola giallo continuò come prima a vagare nella sua mente, in cerca di eventuali collegamenti.
Quindici secondi dopo Arthur uscì di casa e si sdraiò davanti al grosso bulldozer giallo che stava avanzando lungo il viottolo del suo giardino.
Il signor L. Prosser era, come si suol dire, soltanto umano. In altre parole era una forma di vita bipede a base carbonio, discendente da una scimmia. In particolare, il signor Prosser aveva quarant’anni, era grasso e scalcagnato e lavorava al consiglio comunale. Strano ma vero, era, benché ne fosse ignaro, un diretto discendente, in linea paterna, di Gengis Khan. Ma miscugli razziali intervenuti in successive generazioni avevano talmente alterato i suoi geni che non si riscontravano più in lui le caratteristiche del mongolo, e che le uniche tracce della sua gagliarda ascendenza erano una certa rilassatezza del girovita e una predilezione per i copricapi di pelliccia.
Prosser non aveva assolutamente la tempra del grande guerriero: era invece un uomo nervoso e preoccupato. Quel giorno era particolarmente nervoso e preoccupato perché gli stava andando storta una cosa al lavoro (e il suo lavoro era assicurarsi che la casa di Arthur Dent fosse demolita prima del tramonto).
«Su, la pianti, signor Dent,» disse «non può averla vinta e lo sa. Non può stare sdraiato davanti al bulldozer all’infinito.» Cercò di guardare Arthur Dent con severi occhi fiammeggianti, ma non ci riuscì.
Arthur batté le mani nel fango in cui era steso, producendo un ciac ciac.
«Io sono pronto» disse. «Vedremo chi arrugginisce per primo.»
«Ho paura che dovrà accettare per forza la cosa» disse il signor Prosser rigirandosi il cappello di pelliccia in testa. «La tangenziale va fatta, e sarà fatta!»
«È la prima volta che lo sento dire» disse Arthur. «Perché mai andrebbe fatta?»
Il signor Prosser agitò il dito contro Dent, poi smise e ritirò la mano.
«Perché mai andrebbe fatta?» domandò. «È una tangenziale. E le tangenziali sono necessarie.»
Le tangenziali sono soluzioni che permettono ad alcuni di sfrecciare molto rapidamente da un punto A a un punto B, mentre certi altri sfrecciano molto rapidamente dal punto B al punto A. La gente che abita nel punto C, a metà strada fra A e B, spesso si chiede cosa ci sia di così importante nel punto A da indurre tanta gente a correr lì da B, e cosa ci sia di così importante nel punto B da indurre tanta gente a correr lì da A. Così, la gente del punto C finisce per augurarsi che tutti quei corridori decidano una buona volta dove cavolo vogliono stare.
Il signor Prosser avrebbe voluto trovarsi nel punto D. Il punto D non era un posto preciso, ma un qualsiasi punto opportunamente lontano dai punti A, B e C. Avrebbe voluto abitare in una bella casetta del punto D, con delle asce sulla porta, e trascorrere piacevolmente buona parte del tempo nel punto E, che doveva coincidere col pub più vicino al punto D. Sopra la porta avrebbe messo delle asce, anche se sua moglie avrebbe insistito per le rose rampicanti. Non sapeva perché, ma le asce gli piacevano moltissimo. Prosser arrossì violentemente a sentire le risate di scherno degli uomini alla guida dei bulldozer. Spostò il peso prima su un piede, poi sull’altro, ma si sentì a disagio su entrambi. Era chiaro che qualcuno aveva fatto la figura del totale incapace. C’era da sperare che quel qualcuno non fosse lui stesso.
Disse: «Aveva tutto il diritto di presentare eventuali rimostranze o suggerimenti quand’era il momento».
«E quand’era, questo momento?» strillò Dent. «Il momento! La prima volta che ho sentito parlare di tutta questa faccenda è stato ieri, quando un operaio è venuto a casa mia. Gli ho chiesto se era venuto per pulire i vetri delle finestre e lui mi ha detto cheno, era venuto per demolire la casa. Ma naturalmente non me l’ha detto subito. Oh, no. Prima mi ha pulito un paio di vetri e mi ha chiesto cinque sterline di compenso. Poi me l’ha detto.»
«Ma signor Dent, è da nove mesi che i piani del progetto sono disponibili al pubblico, nell’ufficio Viabilità e Traffico.»
«Oh, sì, sì! Be’, appena ho saputo la cosa sono corso a vederli, ieri pomeriggio. Non è che vi siate sforzati molto di richiamare l’attenzione su quel progetto, vero? Magari provando ad andare a dirlo a qualcuno?»
«Ma i piani erano visibili al pubblico…»
«Visibili?! Sono dovuto scendere nello scantinato per vederli!»
«Ma è quello l’ufficio di consultazione per il pubblico!»
«E si deve consultare con la torcia?»
«Oh, già, si vede che le lampadine si erano fulminate.»
«Ma non mancava solo la luce. Mancava anche la scala!»
«Insomma, ha trovato i piani?»
«Sì,» rispose Arthur «sì. Erano in fondo a un casellario chiuso a chiave in un bagno inagibile che aveva affisso sulla porta il cartello ATTENTI AL LEOPARDO.»