Liberi Inizi: “La frontiera scomparsa” di Luis Sepúlveda

Giovedì scorso, 16 aprile, ci ha lasciati uno dei più grandi scrittori contemporanei, Luis Sepúlveda.
Noi di Liberementi vogliamo rendergli omaggio proponendo, per la rubrica Liberi Inizi, l’incipi de La frontiera scomparsa, una delle prime opere di Sepúlveda, pubblicata in Italia nel 1996 da Guanda.

In America Latina è scomparsa una frontiera che portava nei territori della felicità. Benché non comparisse su alcuna cartina, una volta chiunque sapeva come trovarla. Poi sono giunti tempi terribili, e la strada si è fatta un labirinto senza uscita. Ma c’è un giovane che non è ancora stanco di cercare quella frontiera scomparsa, e con essa le proprie radici, che affondano lontano, nel villaggio andaluso da cui il nonno anarchico è fuggito agli inizi del secolo per difendere il suo amore per la libertà. Il giovane ha uno zaino in spalla e tutto il tempo del mondo a disposizione. Ha pagato cari i suoi sogni, ha conosciuto il carcere, la tortura e l’esilio, ma non poteva tradire la promessa fatta da bambino al nonno, in Cile, di visitare il paese di utopia.

Ecco l’inizio del libro.

Un viaggio da nessuna parte

Il biglietto per andare da nessuna parte fu un regalo di mio nonno.
Mio nonno. Un personaggio insolito e terribile. Credo che avessi appena compiuto undici anni quando mi consegnò il biglietto.

Camminavamo per Santiago una mattina d’estate. Il vecchio mi aveva già offerto almeno sei gassose, altrettanti gelati si erano ben liquefatti nella mia pancia, e sapevo che aspettava di essere avvisato del mio bisogno di urinare. Forse si preoccupò davvero dei miei reni quando mi chiese:
«Be’? Non vuoi pisciare? Accidenti, bambino mio. Con tutto quello che hai bevuto…»
La mia risposta normale, quella solita, avrebbe dovuto suonare drammaticamente affermativa, con le gambe ben strette a sottolineare le parole. Allora lui, togliendosi di bocca il mozzicone di sigaro che gli penzolava sempre dalle labbra, avrebbe sospirato per poi esclamare nel più didattico dei toni:
«Aspetta, bambino mio. Aspetta e tieni duro finché non troviamo la chiesa adatta».

Ma quella mattina avevo deciso di farmela addosso, se necessario, piuttosto che subire di nuovo gli insulti di qualche prete. La gag di gonfiarmi di gelati e gassose per poi farmi urinare sulle porte delle chiese la ripetevamo fin dal giorno in cui avevo imparato a camminare e il vecchio mi aveva trasformato nel suo compagno di scorribande, piccolo complice delle sue bricconate di anarchico in pensione.
Su quante porte di chiesa avrò pisciato… Quanti preti e beghine mi avranno coperto di improperi…
«Piccolo sporcaccione! Non hai il bagno a casa tua?» era la cosa più gentile che mi gridavano dietro.
«Come osi insultare mio nipote, che è un uomo libero? Parassita! Rifiuto! Assassino della coscienza sociale!» sputava loro addosso mio nonno, mentre io la facevo fino all’ultima goccia, giurandomi che la domenica successiva non avrei accettato né una Papaya, né una Bilz, né un’Orange Crush, le bibite che mi offriva in modo più che generoso.

Quella mattina fui fermo con il vecchio.
«Sì. Sto per pisciarmi addosso, nonno. Ma voglio andare in un bagno.»
Il vecchio morse il mozzicone di sigaro prima di sputarlo. Subito dopo mormorò un «porcamiseria» e si allontanò di un paio di passi, ma poi tornò immediatamente indietro ad accarezzarmi la testa.
«È per la faccenda di domenica scorsa?» mi chiese, togliendosi di tasca un altro sigaro.
«Certo, nonno. Quel prete voleva ammazzarti.»
«È che quei figli di puttana sono pericolosi, bambino mio. Ma, insomma, se questo è il volere della natura, be’, allora passeremo a manifestazioni di maggior peso.»

La domenica precedente mi ero alleggerito la vescica contro la porta centenaria della chiesa di San Marcos. Non era la prima volta che le vetuste assi mi servivano da vespasiano, ma quel giorno evidentemente il prete era all’erta, perché mi sorprese nel momento migliore della pisciata, quando ormai è impossibile trattenere il getto, e tirandomi per un braccio mi obbligò a girarmi verso il nonno. Poi, indicando il mio pisello zampillante con un dito profetico, il prete sbraitò:
«Si vede che è tuo nipote! Si nota la piccolezza della vostra razza!»
Che domenica. Finii la pisciata sugli scalini della chiesa, guardando atterrito mio nonno che scaraventava via la giacca, si tirava su le maniche della camicia e sfidava il prete a cazzotti, duello che fortunatamente fu evitato dai chierichetti e dai baciapile del coro, perché anche il prete rispose alla sfida rimboccandosi le maniche della tonaca. Che domenica.

Una volta che mi fui liberato nel rispettabile orinatoio di un bar, il vecchio decise che il modo migliore di finire la mattinata era andare al Centro Asturiano, dove le domeniche erano speciali grazie «alle fave nostrane e al cabrales dell’esilio repubblicano».
Per me il cabrales, un formaggio tipico delle Asturie, era una roba ripugnante e puzzolente che potevano apprezzare soltanto quei vecchietti con il basco che ogni giorno arrivavano a casa dei miei nonni sempre preceduti dalla stessa domanda:
«Allora? È morto lo stronzo?»

Mentre facevo onore a un riso al latte, mi chiesi cosa avesse voluto dire il vecchio con il discorso di passare a manifestazioni di maggior peso, e suppongo di aver tremato immaginando intenzioni escatologiche nelle sue parole, ma i miei timori si dissiparono non appena lo vidi chiudersi assieme ad altri tre commensali nella grande sala ornata dalla bandiera rossa e nera della Confederación Nacional de los Trabajadores. Da quella sala uscivano i libri di Jules Verne, di Emilio Salgari, di Stevenson, di Fenimore Cooper, che la nonna mi leggeva nel pomeriggio.

Lo vidi uscire con un volume di piccolo formato. Mi chiamò accanto a lui, e mentre lo ascoltavo lessi sul dorso: Come fu temprato l’acciaio di Nicolaj Ostrovskij.
«Bene, bambino mio. Questo libro devi leggerlo da solo, ma prima di dartelo voglio che tu mi prometta due cose.»
«Quello che vuoi, nonno.»
«Questo libro sarà un invito per un grande viaggio. Promettimi che lo farai.»
«Te lo prometto. Ma dove andrò, nonno?»
«Forse da nessuna parte, ma ti assicuro che ne vale la pena.»
«E la seconda promessa?»
«Che un giorno andrai a Martos.»
«Martos? Dov’è Martos?»
«Qui», disse battendosi sul petto con la mano…