di Ciro Teleffe
Stoner di John Williams è un romanzo che ho iniziato a leggere con la curiosità dell’aspirante scrittore, e ho proseguito per il puro piacere del lettore.
Volevo carpire i segreti di una scrittura che già intuivo essere molto lontana dalla mia così acerba, strillona e desiderosa di farsi notare. Avevo ragione a considerarla diversa, ma non so quanto mi sia stato possibile interiorizzarla. Nella postfazione, Peter Cameron – che a fine lettura è prezioso come un amico con cui confrontarsi – scrive:
“A oggi ho letto Stoner tre volte e non sono del tutto certo di averne colto il segreto”.
Pubblicato per la prima volta nel 1965, è diventato un caso letterario solo dopo la ristampa del 2003. Anche Stoner – il protagonista – ha scritto un libro. Ho trovato quasi profetico questo passaggio in cui, poco prima di morire, osserva il suo lavoro lì sul comodino: Poco gli importava che il libro fosse dimenticato e non servisse più a nulla. Non s’illudeva di potersi ritrovare in quel testo, in quei caratteri scoloriti. E tuttavia, sapeva che una piccola parte di lui, che non poteva ignorare, era lì, e vi sarebbe rimasta.
Nessuno si preoccupi se ho svelato la morte del personaggio, non è uno spoiler. Questa è una storia semplice: un uomo che va all’università, e poi vi resta come docente fino alla fine dei suoi giorni. Sembrano mancare gli espedienti letterari: niente cliffhanger, né flashback, né anticipazioni. Il famoso consiglio per novelli scrittori “non raccontare, mostra!” pare che in questo caso sia stato trasformato in “non mostrare, fai sentire!” Non sono le immagini a investire il lettore, ma una costante sensazione di vicinanza, un’apprensione affettuosa, sommessa come un presentimento.
È una storia che si staglia (verbo utilizzato generosamente nella traduzione italiana) lenta come l’orizzonte. Procede a passo d’uomo, al passo curvo di Stoner, partendo senza inganni dal principio, seguendo onestamente il flusso senza potere dominarlo, fino ad arrivare, inesorabilmente, alla fine del tempo a disposizione. È una vita. Materia che lo scrittore sembra aver osservata attentamente: l’inevitabilità di certe scelte, l’indifferenza del fato, l’insensatezza del destino. Anche la morte: è descritta così bene da far pensare che lo scrittore sia tornato indietro per raccontarla con cognizione. A noi pare di riconoscerla come la ricordassimo per esperienza. È un libro che ti muore fra le mani.
Lo consiglio in questi giorni difficili che stiamo vivendo per la calma che mi ha trasmesso. Per dirlo bene, è molto meglio citare ancora la postfazione di Cameron: Ecco uno dei regali che dobbiamo all’arte: la sensazione che non tutto è perso, che alcune cose restano perfette e inviolabili.