Dall’orto al mondo: manuale su come tornare a camminare a piedi nudi.

di Giusy Esposito*

Si tratta sempre di un sentire, volevo scrivere sentore, è stato il correttore a suggerirmi “sentire”. In fondo ha ragione, perché questo sentore parte proprio dal sentire con tutti i sensi che si hanno a disposizione. Sentire la terra con le mani, sentirne i suoni di chi la abita, quelli di chi la cura, a rastrellare, zappare, innaffiare. Si tratta di osservarla in evoluzione, quando cresce, quando muore, quando è sotto al sole e quando sotto la pioggia. E si sente nell’aria, come con il prato appena tosato o l’odore della terra dopo la pioggia. E poi finisce sulla nostra tavola, ogni giorno, con tutti e cinque i sensi che si hanno a disposizione.

Il fatto che l’immagine dell’orto, del lavorare la terra, rimandi quasi automaticamente e in maniera del tutto immediata a quella dei nostri nonni, della nostra infanzia, dei nostri giochi all’aperto e quindi alle polaroid delle cose che sono state e non sono più, riassume, per me, il senso di questa lettura. Dall’orto al mondo. Piccolo manuale di resistenza ecologica è il libro di Barbara Bernardini (Nottetempo, 250 pp.) che sa essere più di un piccolo manuale.

Non racconta il diario delle coltivazioni, dei suoi esperimenti, dei pleniluni e dell’esposizione al sole, dei successi o degli insuccessi, mese dopo mese, dalla primavera all’inverno. Questo libro è un vero e proprio viaggio. Un viaggio che sembra andare verso il passato, solo perché nel presente ci siamo troppo allontanati dai valori della terra. È un continuo ritorno alla casa dei nonni, alle verdure, quelle buone che ti avvolgevano in fogli di carta marrone insieme alle uova gelosamente custodite e avvolte in fazzoletti di stoffa, ma tu bambina non capivi ancora la differenza da quelle che trovavi con la mamma al supermercato. L’immagine delle “noccioline messe ad asciugare su delle lenzuola stese a terra in soffitta” mi ha fatto ricordare il sapore amaro che hanno le nocciole ancora “fresche”, quando sono verdi e bianche, prima di seccare. Così come lo stare attenti alle vipere nei giochi che si facevano in giardino, all’aperto, senza scarpe.

E pensare che il mondo/è fatto di gente come me/che mangia il radicchio/alla finestra/contento di stare, d’estate,/a piedi nudi”

(Nino Pedretti “I nomi delle strade”)

In questo inno alla semplicità, alla genuinità, possiamo permetterci di parlare di nostalgia? Nostalgia di qualcosa che abbiamo deciso noi stessi di lasciare e di non portare avanti? Senza nemmeno rendercene conto, quelle cose che abbiamo abbandonato e destinate al solo ricordo. Sono pezzi del passato cui non si può tornare perché “altre persone abitano quelle case, molti degli alberi sono stati abbattuti, altri hanno resistito”. Bernardini accompagna chi legge alla ricerca di qualcosa di semplice “quella molteplicità a cui abbiamo rinunciato quando abbiamo accettato di credere che la modernità sia l’unico mondo possibile”. E ci abbiamo rinunciato nel nome del progresso, della modernità, della vita più facile. Tra queste pagine c’è la rivoluzione verde, quella nata a metà degli anni ’40, e poi il suo fallimento: l’inquinamento, l’utilizzo massiccio di parassiti e fertilizzanti, per ottenere un terreno che produce di più e più in fretta, distruggendo l’equilibrio naturale delle cose. C’è la promessa del progresso e poi il suo fallimento, arriviamo fino ad oggi, dove gli orti rimandano a immagini di un passato remoto e non ci interroghiamo sulla provenienza della quantità industriale degli ortaggi che troviamo come “sempre freschi” quotidianamente al supermercato.

Eppure, questo ritorno alla vita lenta potrebbe essere di più di un trend che spopola sui social. Il desiderio dei risvegli lenti, dell’odore di torta di mele, dei limoni appena raccolti, la meraviglia dinanzi al ritorno delle tradizioni, potrebbe portare un ritorno alla terra, alla vita lenta nella vita reale, non soltanto virtuale. C’è la viva consapevolezza che oggi sappiamo meno cose, perché sappiamo meno cose sulla terra. È un invito a lasciarsi andare, a riprendere il contatto con le cose semplici, le più vere, che sono anche le più antiche. Iniziando con un piccolo gesto, dalla coltivazione di un orto, come ha fatto l’autrice, o da una lettura consapevole, da una curiosità che si trasforma in un viaggio o da una passeggiata alla ricerca di funghi.

Che cosa fate quando il vostro mondo comincia a crollare? Io vado a fare una passeggiata e, se ho davvero fortuna, trovo funghi. I funghi mi riportano in me”

(Anna Lowenhaupt Tsing, Il fungo alla fine del mondo)

* Giusy Esposito, classe ‘95, lavora come social media manager per una casa editrice e organizza eventi culturali in giro per l’Italia ma soprattutto su Roma. Legge, scrive, viaggia e beve caffè, quasi sempre contemporaneamente.