La ventiduesima edizione del Campionato mondiale di calcio è ospitata dal Qatar, un piccolo ma ricchissimo stato retto da una monarchia assoluta accusata di diverse violazioni dei diritti umani. Sono i primi Mondiali che si svolgono nel mondo arabo e tra i più controversi e discussi di sempre. “La coppa del morto” racconta come si è arrivati a questo punto, non solo analizzando la cronaca più strettamente legata al Mondiale ma anche indagando le origini del sistema di potere del Qatar e della dipendenza del calcio dai soldi dei regimi del Golfo. Una guida critica al più grande evento del 2022 che mette i lettori nelle condizioni di sapere nei dettagli cosa è successo prima del fischio d’inizio. Noi di Liberementi abbiamo raggiunto l’autore Valerio Moggia per capire meglio cosa sta succedendo in Qatar e per farci raccontare il suo nuovo libro.
Valerio partiamo dalla domanda più ovvia: tu seguirai la Coppa del mondo? E perché?
Sì, la seguirò. Principalmente perché lavoro come giornalista sportivo, e quindi non posso evitare di seguire un evento centrale come il Mondiale, a meno di cambiare lavoro. In realtà, devo ammettere che non so se in altre circostanze avrei avuto il coraggio di non guardare le partite: sono un appassionato di calcio da quando ero bambino, il Mondiale per me è un evento importantissimo, e al di là della problematiche sociali che circondano questa edizione in Qatar un boicottaggio è qualcosa che richiede un grande atto di coraggio. In più lo seguirò anche per vedere se assisteremo a qualche protesta in campo.
Il libro è pieno di riferimenti ad articoli e inchieste usciti negli anni e contiene anche un’importante ricostruzione della storia del Qatar. Quanto hai studiato per poterlo scrivere?
In verità non tantissimo. Nel senso che interessandomi proprio di calcio e politica, certe notizie le ho scoperte di volta in volta, mentre uscivano sui media internazionali. Il vero problema, semmai, è stato poi recuperare cose lette diversi anni fa e che non mi ero salvato, quando ho deciso di scrivere il libro. Penso di poter dire che la parte di studio è stata dedicata a capire la storia del Qatar, come si compone attualmente la sua società e come funziona, quali legami economici e geopolitici intesse con il resto del mondo, o su che cos’è la famigerata kafala.

Una cosa che si dice spesso tra gli addetti ai lavori, ma che fa sempre bene ricordare: quando si parla di calcio, non si parla mai di solo calcio e il tuo libro lo dimostra…
Ovviamente. Tutto lo sport ha profondi legami sociali e politici con il contesto in cui emerge; il calcio ha il vantaggio di essere lo sport più diffuso al mondo, e questo accresce il suo valore sociale, oltre che economico e, quindi, politico. Questo vale da sempre: nella seconda metà dell’Ottocento, questa disciplina si diffuse nelle fabbriche del nord dell’Inghilterra, e gli operai si dovettero confrontare con un sistema retto da giovani dell’upper class ostili al professionismo per ragioni di principio, mentre i lavoratori rivendicavano il diritto a essere pagati per giocare e allenarsi, per poter competere ad armi pari coi loro più ricchi avversari. Il calcio moderno è nato con un legame strettissimo con la politica. Oggi noi abbiamo il presidente della FIFA Infantino che parla al G20 e chiede una tregua in Ucraina: è ovvio che non sono solo ragazzi che corrono dietro a un pallone.
Mi ha colpito molto la parte in cui racconti lo stato in cui vivono i lavoratori in Qatar. Di fatto è una vera e propria schiavitù. Ti va di spendere due parole su questo punto?
Quando ho finito di scrivere il libro, ancora non erano uscite alcune inchieste che approfondivano ulteriormente il tema, rivelando lati ancora più oscuri. Provo a riassumere qui ciò che so oggi: questi lavoratori, per lo più provenienti da paesi dell’Asia meridionale, devono innanzitutto pagare una tassa d’assunzione per andare a lavorare in Qatar. Di solito ammonta a 7.000 riyal (circa 1.800euro), ma la maggior parte di loro non andrà a guadagnare più di 1.000 riyal al mese (che da qualche è il nuovo salario minimo, ciò significa che prima le paghe erano anche più basse). I turni di lavoro sono massacranti, da 14 alle 18 al giorno, in condizioni climatiche estreme e con poca acqua da bere per idratarsi. Finito il lavoro, queste persone tornano ai loro appartamenti, che sono stanze luride e buie i cui stanno anche sei persone insieme. Sono totalmente esclusi dalla vita sociale del paese, e anche se formalmente il sistema della kafala sarebbe stato superato dalle recenti riforme, le ong sostengono sia ancora attivo nella pratica, ad esempio nell’impossibilità di lasciare il proprio lavoro senza il permesso del datore di lavoro. Sappiamo che in diversi casi alcuni lavoratori hanno lamentato ritardi nei pagamenti, arrivati anche fino a sette mesi. Si è parlato molto delle migliaia di morti nei cantieri, ma il vero problema è che anche chi non muore non fa una bella vita.
Il passato ci insegna che si può scegliere di non partecipare a importanti manifestazioni sportive per ragioni politiche. Penso alle olimpiadi durante la guerra fredda, ad esempio. Perché per questo mondiale invece sembra che la possibilità boicottaggio non sia mai stata presa in considerazione?
Ti direi principalmente perché non c’è più la guerra fredda. Gli Stati Uniti che disertano Mosca 1980 compiono una decisione politica calata dall’alto sugli atleti, in un clima generale che vedeva i due paesi ideologicamente all’opposto. Oggi questa spaccatura non esiste più, anzi il Qatar è molto vicino ai paesi occidentali, almeno a livello economico. La responsabilità del boicottaggio è quindi ricaduta sugli atleti, ciò su persone che non hanno avuto alcun ruolo nell’assegnazione di questo torneo (anzi, alcuni di loro, quando avvenne, erano dei bambini). I calciatori si preparano per quattro anni per partecipare a questo torneo, per alcuni di loro questa sarà l’unica occasione della carriera: sarebbe ingiusto pretendere da loro di non andare. Soprattutto quando i politici e i media hanno fatto così poco per opporsi a questo Mondiale. Che peso avrebbe avuto la decisione di un importante network televisivo o di streaming di non trasmettere le partite? Penso molto maggiore di un calciatore che decideva di restare a casa.
C’è comunque molta mobilitazione. Intere tifoserie, qualche personaggio pubblico…
Sì, anche se queste prese di posizione sono arrivate solo molto di recente. Prima dell’inchiesta del Guardian del febbraio 2021(quella dei famosi 6.500 morti nei cantieri), quasi nessuno al di fuori delle ong che si occupano di diritti umani aveva criticato il Mondiale in Qatar. Adesso fortunatamente le cose sono diverse, e soprattutto i tifosi tedeschi e scandinavi hanno messo in atto proteste piuttosto forti. Segno che evidentemente in tanti percepiscono che è stato superato un limite.
Cosa succederà il 19 dicembre, il giorno dopo la finale, quando si spegneranno i riflettori su Qatar 2022?
Bella domanda! Sinceramente, senza la pressione mediatica dovuta al Mondiale, non credo vedremo miglioramenti nei diritti umani. Il Qatar è una monarchia assoluta retta da una famiglia reale potentissima, che affidamento su una ristretta élite di cittadini privilegiati, mentre il resto della popolazione su immigrati senza alcun diritto: i cambiamenti avvengono solo lo decide l’emiro, non c’è possibilità che arrivino dal basso. Il Mondiale darà al Qatar importanti contatti economici e strategici internazionali (l’aspetto militare, di cui è parlato troppo poco, è importantissimo per un piccolo paese circondato da nazioni ostili), rendendolo ancora più potente e influente. Penso che uno dei grandi obiettivi del governo sia di trasformare Doha in qualcosa di simili a un meta turistica come la vicina Dubai. Dal punto di vista del calcio, spero che questa esperienza ci convinca tutti e tutte della necessità di una maggiore sensibilizzazione sociale di questo sport, e che si possa agire per tempo per bloccare il prossimo Mondiale in Qatar. Ad esempio, tra qualche mese si dovrà rinnovare l’accordo per la Supercoppa italiana in Arabia Saudita: sarebbe il caso di fare pressioni sulla Serie A e la FIGC per portare il torneo in un paese che non sia una spietata dittatura sanguinaria.
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Valerio Moggia (classe 1989) fonda in questo libro le sue due più grandi passioni: il calcio e la politica. Due temi che vanno spesso di pari passo e che tratta sul blog Pallonate in faccia