Valentino Rossi: “Storie di matematica e derapate” di Federico Vergari

Ieri è stata una giornata storica, non solo per il mondo sportivo, e del motociclismo in particolare, ma più in generale per tutti coloro che hanno avuto la fortuna di veder correre Valentino Rossi.

Rossi, infatti, non è stato solo uno dei più forti motociclisti di sempre, ma anche un personaggio capace di riscrivere le regole culturali, e comunicative, di una tra le discipline più seguite nel mondo.

Dai successi nella classe 125, tutti seguiti da colorate esultanze, passando per il mondiale conquistato in 250, e fino ai trionfi nella classe regina, Rossi ha dato vita ad un nuovo modo di intendere lo sport.

E ieri, 14/11/21, che sommati tra loro fanno proprio 46, nella 46esima settimana dell’anno (anche il destino ha voluto rendere omaggio a Rossi), Valentino ha chiuso la sua straordinaria carriera in MotoGp.

Per celebrarlo, grazie alla disponibilità della Lab DFG, vi proponiamo un estratto del capitolo Il mio miglior nemico. Storie di matematica e derapate, contenuto all’interno di #Emozioni, scritto da Federico Vergari, e arrivato in libreria proprio la scorsa settimana.

Parlare della rivalità tra Rossi e Márquez è come parlare di Guerre Stellari. Non puoi tifare contemporaneamente per Luke e Darth Vader. Devi scegliere e devi farlo in fretta. Perché alla curva successiva potresti essere chiamato a dichiarare da quale lato della forza stai.
Da una parte c’è uno degli italiani più famosi all’estero e dall’altra uno spagnolo, che vince e fa di tutto per non risultare simpatico al pubblico italiano. Che impazzisce per Rossi invece, ma non faticherebbe ad accettare l’ingresso in pista di un nuovo attore, se lo meritasse. La domanda da porsi, a prescindere
dai titoli, allora è: Márquez merita? «Merita di non correre più» dicono i più rancorosi, pensando a quanti scherzi ha fatto a Valentino, che di scherzi ne ha
sempre fatti tanti, pure lui. Ma in pista no. La pista è sacra e lì non si scherza, perché in ballo c’è altro. La vita, ad esempio.
Questa cosa Rossi l’ha sempre rispettata, anche da ragazzino scapestrato quando la sua rivalità era con un altro italiano, con un numero 3, con Max Biaggi. Quella forse è stata la grande rivalità di fine anni Novanta, fatta di parole grosse, ma di rispetto in pista.

Rossi e Márquez sono due piloti che, a guardarli senza casco, immersi a camminare nel paddock, stenterei a credere che facciano lo stesso lavoro. Che se pensi: «Ma questi due cosa avrebbero da dirsi, se si trovassero una sera a cena insieme?» non riusciresti a trovare una risposta. Perché niente di più diverso il circo del motomondiale ha saputo produrre in questi anni.
Forse un unico comune denominatore, a testimoniare un contatto tra i due, c’è. Ed è la follia. Perché un po’ matto devi esserlo, se ti lanci a trecento chilometri orari su due ruote instabili e sorpassi in curva a centottanta all’ora, per tagliare per primo il traguardo. Una gara di Motogp dura circa tre quarti d’ora e sempre
più spesso – grazie agli attori che scendono in pista, certamente – sono quarantacinque minuti di follia, mista ad adrenalina.

Matto come chi firma un contratto milionario, ma al suo main sponsor – era Alice – chiede di installare l’adsl a Tavullia, un paese di cinquemila anime, che all’epoca non era certo il primo della lista. O come chi, da ragazzino, a quattordici anni, partiva con il suo cinquantino per andare a vedere i gran premi:
ci metteva una notte, una vita praticamente. O matto come chi sa di potersi permettere di bloccare la partenza di un gran premio, andare avanti, tornare indietro contromano, scendere dalla moto, spingerla per riposizionarla sul suo posto in griglia e guardare davanti in attesa del verde, come se non fosse successo
niente. Come fosse la cosa più normale del mondo.
Márquez – se e quando vince – vince da solo. Prende e va via. Valentino raramente lo ha fatto e sì che ha vinto. Però Rossi dà spettacolo. Gli piace correre e gareggiare con gli altri. La differenza tra i due forse sta tutta lì. Tra “vincere e basta” e “vincere divertendosi”. Valentino mette in scena uno show. Márquez cerca di addormentare la gara, sperando che nessuno abbia voglia di svegliarsi per i successivi quaranta minuti.
Diversi, ma uguali. Diversi, ma vincenti. La scena madre di tutta questa storia nasce in chiusura del Mondiale del 2015. Rossi è in corsa per il titolo, mentre Márquez è ormai tagliato fuori. C’è un suo connazionale, però, Jorge Lorenzo, che può ancora ambire a sogni iridati. Per il Dottore, e per molti italiani, l’occasione è ghiotta e qualcosa di simile non si presentava da parecchio tempo. Il sapore di una vittoria iridata non lo dimentichi, ma dopo anni a veder vincere gli altri,
un po’ di nervosismo e tensione li senti tutti. Soprattutto se sai che quella potrebbe essere davvero l’ultima volta.

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Valentino Rossi piace perché è uno dei tanti ragazzi che ha fatto mille e mille volte una provinciale con un cinquantino, sognando di piegare dentro al Mugello. E, come lui, tutta la provincia italiana si rivede in quei ragazzi benedetti dal talento che “chissà come sarebbero andati a finire, se le loro vite avessero preso un’altra direzione”. Rossi, possiamo dire, sta alla moto come l’altro Rossi, Vasco, sta alla musica. Senza vie di mezzo e con semplicità. Perché è questo quello che è sempre stato: semplice. Come una canzone che arriva dritta al cuore. Se la moto di Rossi potesse esprimere qualcosa di diverso dal suono del motore, canterebbe una canzone. E sarebbe Vita spericolata, probabilmente. Bella, semplice e sulla bocca di tutti. Una bocca che sa sorridere e incazzarsi. Una bocca che parla la stessa lingua di cinquanta milioni di italiani. Che si fa capire. Ecco cos’è Rossi: Valentino è la pancia del Paese. E tutto questo Márquez non lo è. Nemmeno nella sua Spagna. Lui ha scelto di giocare la parte non dell’antagonista, che fu ad esempio di Biaggi, ma quella del nemico. Se Valentino è Vasco,
Márquez è un tormentone estivo spagnoleggiante. Ti fa divertire, ma dura il tempo di una bevuta frettolosa. Sul lungo periodo il buono si apprezza. E questo buono ha il numero 46 sull’etichetta. Che per nove volte è stato anche un numero uno. Un re. Un re senza corona, attualmente, ma con le mani sporche di
grasso e la tuta impregnata di benzina. A divertirsi e a provarci ancora. Come vorrebbero essere tutti i re, potendo scegliere.