La lunga storia d’amore tra panchine a bordo campo e aule parlamentari nasce in Italia già tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, muove i primi passi negli anni del fascismo, inizia a correre durante la Prima Repubblica e va a segno con le vittorie sportive e politiche di Berlusconi, arrivando con forza immutata fino ai giorni nostri. Era dunque inevitabile che la lingua della politica fosse contagiata da slogan e metafore provenienti dal mondo del pallone, sia nel gergo dei parlamentari che in quello giornalistico, nei discorsi ufficiali come sui manifesti elettorali. Certo, i vari assist, pressing e zona Cesarini hanno avuto fortuna anche nella lingua comune; così il lessico immediatamente comprensibile e con il quale gli italiani hanno grande confidenza è stato scelto per rendere familiari alcuni volti, e alcune discese in campo. Il caso più celebre è certo quello del Cavaliere, ma la connessione tra politica e calcio in Italia è antica, e non conosce cartellino rosso.
Ai due autori Pierpaolo Lala e Rocco Luigi Nichil abbiamo fatto qualche domanda.
Calcio e politica sembrano sempre essere andati di pari passo, ma la cosa pubblica esiste da secoli prima del football. Come si arriva dal Panem et circenses all’epoca post berlusconiana? Ogni epoca ha il suo gioco del pallone?
Nel passato, almeno in quello recente, esistono certamente esempi assimilabili al ruolo esercitato oggi dal calcio: basti pensare, ad esempio, all’episodio che lega l’attentato a Togliatti alla vittoria del Tour de France di Gino Bartali nel 1948, di cui parliamo nel libro. Va tenuto presente, tuttavia, che lo sport di massa – come l’intera società di massa – nasce solo nella seconda metà dell’Ottocento. Si tratta, quindi, di un discorso che ha poco a che fare con lo sport: anche il calcio, del resto, già prima di Berlusconi, ma certo in modo molto più evidente dopo la sua discesa in campo, non pare interessare alla politica come pratica sportiva in sé, quanto come spettacolo di massa, in grado di distrarre l’opinione pubblica, creando al tempo stesso consenso pubblico e senso di appartenenza, soprattutto nell’epoca in cui sono venute meno le grandi ideologie politiche del passato. Parlerei, dunque, più in generale, di tentativi di controllo delle masse affiancando all’uso della forza l’orientamento del pubblico attraverso il controllo dell’informazione: dal Panem et circenses degli imperatori romani fino ai giornali, alla televisione e, più di recente, ai social network. Da sempre, d’altra parte, chi governa utilizza la comunicazione per legittimare il proprio potere agli occhi dei cittadini; e il discorso vale anche per la letteratura, ovviamente: si pensi a come alcuni romanzi cavallereschi in epoca medievale esaltassero la dinastia plantageneta, di origine francese, sul trono d’Inghilterra, solo per fare un esempio. E poi, restando sempre in Inghilterra, siamo davvero sicuri che Riccardo III sia il sanguinario assassino descritto da Shakespeare?
Quanto pesa la discesa in campo di Berlusconi nel cambio del linguaggio?
La storia della Prima repubblica è disseminata di aneddoti – alcuni assai divertenti, altri molto meno – che testimoniano le continue sovrapposizioni tra politica e mondo del calcio. L’arrivo di Berlusconi, tuttavia, segna in questo senso un momento di discrimine evidente: non a caso, nel libro abbiamo parlato di a.S. e d.S., ossia di una storia “avanti Silvio” e “dopo Silvio”. Non sono le singole parole in sé a fare la differenza: anche alcune espressioni-bandiera della prima epopea berlusconiana, del resto, come scendere in campo o Forza Italia, erano già state utilizzate in passato (nel 1987, infatti, anche Paolo Valenti, lo storico conduttore di 90° minuto, aveva annunciato, al momento della candidatura alle politiche la sua discesa in campo – ”Dopo tante parole ho deciso così di scendere in campo” – tra le fila della Democrazia cristiana, che a quelle elezioni utilizzò come slogan “Forza Italia. Fai vincere le cose che contano, vota Democrazia cristiana”). Il cambio, quindi, non ha natura qualitativa, ma piuttosto quantitativa, e pare giustificato inizialmente dal cambiamento della legge elettorale in senso maggioritario. Il bipolarismo (imperfetto) che ne nasce, infatti, giustifica facili traslati di ascendenza calcistica: parole e locuzioni come la squadra (di governo), cambio di casacca, calciomercato, palla al centro, minuti di recupero e tante altre, talvolta già presenti nel linguaggio comune, e in alcuni casi già attestate nella precedente comunicazione politica, subiscono ora un’evidente impennata, che continua ancor oggi, malgrado il tramonto (definitivo, si direbbe) del bipolarismo dopo le elezioni del 2013. L’utilizzo di tali metafore, che nel loro complesso creano il cosiddetto calcese, se da una parte realizza una semplificare della comunicazione politica, eliminando gli elementi più opachi (“le convergenze parallele”, ça va sans dire) e facilitando la comprensione, dall’altra, cristallizzandosi in formule fisse e ricorrenti, comporta fatalmente un impoverimento delle argomentazioni politiche, e implica – quando volontario e insistito – un adeguamento volontario al codice del destinatario: “Ti piace il calcio? Guardami, io parlo come piace a te, siamo uguali!”. Il linguaggio del calcio, d’altra parte, come spieghiamo nel libro, non ha caratteristiche proprie in grado di spiegarne la ricorrente frequenza nella comunicazione politica degli ultimi decenni: le ragioni del suo successo vanno quindi principalmente ricondotte alla sua straordinaria popolarità, che non conosce confini di ordine culturale o sociale.
Mi raccontate, motivandola, la vostra parola o espressione preferita?
Ne scegliamo due: la prima perché è stata decisiva per la realizzazione del libro, l’altra perché rappresenta in sintesi la storia che abbiamo raccontato. La prima è VAR, acronimo di il Video Assistant Referee, ossia l’atto finale di un breve esame partito dai collaboratori dell’arbitro che seguono la partita davanti allo schermo. Com’è noto, si tratta di una novità nel mondo del calcio, introdotta in Serie A dalla stagione 2017/2018. La parola, tuttavia, comincia sùbito a circolare anche in àmbito politico: all’inizio del 2021, infatti, in occasione della fiducia al Senato del Governo di Giuseppe Conte, viene invocato il VAR (per due volte) per verificare la presenza in aula del senatore Lello Ciampolillo, i cui ritardi hanno portato qualcuno a sostituire l’espressione di ascendenza calcistica zona Cesarini (‘qualcosa fatto in extremis, all’ultimo momento’) con zona Ciampolillo: «Lello Ciampolillo, il ritardo del senatore scatena l’ironia social: “Fiducia in zona Ciampolillo”» (Repubblica.it, 20-1-2021); «È nato un neologismo parlamentare: la zona Ciampolillo, ovvero quell’insondabile lasso di tempo che passa dalla chiusura di un dibattito nelle Camere e l’avvio delle procedure di voto» (Michele De Feudis, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 19-2-2021). Questi episodi, in effetti, oltre che in generale la storia di Silvio Berlusconi, sono stati decisivi per la stesura del nostro volume. L’altra parola è battitore libero. Avevamo già chiuso il glossario, quando un amico, che aveva letto in anteprima il capitolo Non di solo calcio vive l’uomo (politico). Il contributo degli altri sport al linguaggio della politica, ci suggerisce battitore libero: “è molto usato in politica, credo che venga dal baseball”, dice. Aveva ragione, anche se in parte: la figura del battitore libero, in effetti, è spesso evocata nel linguaggio e nel racconto della politica, ma non viene dal baseball, bensì dal calcio: pur in assenza ancor oggi di un vocabolario storico-etimologico del calcio (lacuna assai grave negli studi lessicografici), non è difficile infatti ricondurre l’introduzione della locuzione all’evoluzione tattica dei primi anni Cinquanta, quando si giunse all’arretramento di un difensore rispetto allo stopper e ai terzini, lasciato “libero” da qualsiasi compito di marcatura, e perciò detto battitore libero o, più semplicemente, libero. L’espressione battitore libero, l’ultima entrata cronologicamente nel nostro glossario, appare particolarmente significativa, proprio perché, a dispetto del suo uso insistito nel linguaggio politico (e non solo), risulta oggi scomparsa dal lessico calcistico, dove anche la voce libero appare da tempo in via d’estinzione (se non già scomparsa del tutto): la rivoluzione sacchiana della fine degli anni Ottanta, infatti, non ha solo cambiato radicalmente le tattiche di gioco con l’introduzione della zona integrale (e dei difensori in linea), ma ha anche comportato uno sconvolgimento del decennale vocabolario del calcio, in cui si nota, ad esempio, la scomparsa delle parole stopper e libero, sostituite oggi da centrali (di difesa o difensivi).
C’è qualche parola del vocabolario finale che manca?
È possibile che nel glossario manchino, per svista, alcune parole: qualcuno, ad esempio, durante una presentazione ha suggerito – questa volta fuori tempo massimo – l’acronimo DASPO, davvero molto interessante. In generale, abbiamo programmaticamente evitato parole che fossero comuni ad altri sport, a cui abbiamo destinato – come già detto – un capitolo a parte. All’atletica leggera, del resto, rimandano le due metafore forse più utilizzate nel linguaggio politico degli ultimi trent’anni: maratoneta e centometrista (o velocista). La contrapposizione tra i primi e i secondi era già evocata in passato, ma è ancora una volta con Berlusconi (e Prodi, questa volta) che si concretizza. Tutto nasce da un editoriale di indro Montanelli su “La Voce” nel febbraio 1995, mentre si annunciano come imminenti le elezioni politiche, che si sarebbero in realtà svolte un anno dopo: «Il Cavaliere vincerà a mani basse… Prodi non ci sembra che abbia la stoffa dello sprinter», nella sintesi di Vittorio Monti per il “Corriere della Sera” del 24-2-1995. Il Professore replica immediatamente riprendendo la stessa metafora: «”Ha ragione – scrive all’amico Montanelli, invitandolo a non essere pessimista – non ho la stoffa dello sprinter, ma come fondista e maratoneta, anche se non unto da chicchessia, l’assiduo allenamento mi consente qualche tratto di corsa veloce. […] Ci vuole altro che uno sprinter per rimettere l’Italia in linea di galleggiamento. La maratona è perciò una linea obbligata”» (Marisa Ostolani, “La Stampa”, 24-2-1995). L’associazione diventerà quasi automatica nella sintesi giornalistica («I primi passi compiuti dal maratoneta bolognese lasciano scettici», Fernando Proietti, 2-3- 1995; persino «infaticabile maratoneta del verbo ulivista», per Roberto Bagnoli, 23-6-2005) e verrà rilanciata di tanto in tanto dallo stesso Prodi («Mi chiedete di cominciare adesso lo sprint? Se lo facessi tradirei la mia indole di maratoneta», cit. dal “Corriere della Sera” e da “la Repubblica” del 26-1-2006), tanto da far dire a Marco Marozzi persino che «Prodi […] ormai ama quasi più farsi raccontare come maratoneta che come ciclista» (“la Repubblica”, 12-3-2006). Ci siamo chiesti, allora, pensando a Eugenio Montale che confessò di aver sognato di vincere una maratona «partendo e mantenendomi in ultima posizione fino agli ultimi chilometri, dopo, sospinto da una forza soprannaturale, scattare come una freccia e giungere primo al traguardo», se anche Romano Prodi, in quegli anni, abbia mai sognato di fare lo stesso.
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