Stradario aggiornato di tutti i miei baci. Leggi l’estratto

di Daniela Ranieri


Antinoo

Ma i volti che noi cerchiamo disperatamente ci sfuggono:
è sempre solo un istante…
Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano

Gli uomini li porto tutti a Villa Adriana. Non solo quelli che amo molto, o poco, o abbastanza: ci ho portato anche persone che a malapena apprezzavo. È un rito di passaggio, una forca caudina, una prova del fuoco. Entrano tutti con me nella rovina meravigliosa per la lunga salita, macchina futuristica di 2000 anni, e ne escono rinnovati ai miei occhi: da tenere, o da buttare.

Villa Adriana è, a tutti gli effetti, mia. Da più di vent’anni anni, infatti, questo sito che sorge sulla terra sacra e pagana dei romani, popolata di acquedotti, templi e ninfe dell’Aniene, ha assunto lo statuto, la configurazione e le caratteristiche di mio museo personale, posto sotto la mia tutela spirituale e soggetto a una specie di regime di cui mi sono assunta tutti gli oneri e gli onori. Entro e esco come e quando più mi aggrada; vi ho fotografato tutti i mattoni, i capitelli, i colli mozzati, i coccodrilli in originale e in copia, i riflessi sull’acqua a seconda delle ore del giorno e i fili d’erba, ho campioni di insetti, trovati morti, sottovetro, e fiorellini di tutte le stagioni prelevati durante le lunghe ore della mia permanenza lì, per lo più solitaria.

Benché a volte debba fare i conti con la presenza di qualche turista, e nonostante alcuni segnali – come la convenzione di passare per una biglietteria e da lì per dei tornelli all’ingresso – potrebbero far pensare che il luogo non sia sottoposto alla mia giurisdizione, di fatto esso mi appartiene, e ancor più viceversa. Quelle presenze e quei segnali sono messi lì apposta, come ironie romantiche, a testimoniare che c’è una smagliatura nella storia, un buco nel divenire, ma dal momento che io lo so, e lo accetto, e il mondo pure lo sa ma continua per amore di rappresentazione a pensare e a difendere Villa Adriana in quanto patrimonio dell’umanità, a me sta bene.

Se solo le Muse di Tivoli potessero risorgere da Tempe, userebbero me per cantarla. Di nessuno spazio ho bisogno, come di quello che si apre dal cancello fino all’orto degli ulivi, e poi tra la brutta statua di Marguerite Yourcenar, che pare una vecchia che lavora la maglia sotto a un albero di noce, davanti al tempio di Venere, fino alla sommità del Canopo. In particolare un luogo si adatta alla perfezione alle mie esigenze mentali: il Teatro Marittimo, che aveva le funzioni di domus minore, o di studiolo dell’Imperatore, che, pare, qui si ritirava – come dice un cartello all’ingresso che potrei recitare a memoria – durante le sue frequenti crisi di malumore (che Adriano fosse folle, geniale, malmostoso, esotista, innamorato, ossessivo, illuminato e colto lo sappiamo grazie a Elio Sparziano, che riferisce di lui anche «capelli docili al pettine»), anche se l’immagine di Adriano è una somma del ritratto romanzato che ne fa Yourcenar e di mito popolarmente tramandato, addolcito da una certa vulgata da soap opera, da un’arietta da gossip. Adriano è la più raffinata delle icone gay: abbacinato d’amore per il poco più che adolescente bitinio Antinoo, se lo porta a Tivoli e ne fa una specie di idolo vivente di Eros; lo porta a caccia con lui, e gli fa l’onore di scoccare la freccia fatale a un leone (il leone la cui morte spettava all’Imperatore).

Il mio Antinoo aveva la stessa iniziale del nome. Era bello come un condottiero giovane e incosciente. Aveva una coperta di lupo sul letto. Sembrava drogato di me: volli crederci folli d’amore (forse eravamo semplicemente folli). La sua atmosfera mentale era fatta di paganesimo-classicismo-culto della romanità: mi parve un’estrema sofisticazione della coltivazione di sé; poi, solo poi, si palesarono dei sicuri segnali di filo-nazismo.

Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.
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