di Giorgia Sallusti*
L’harem è il gineceo del mondo islamico medievale e moderno, lo spazio riservato alla vita delle donne, nascoste da sguardi esterni alla famiglia o alla corte (in caso di harem imperiali): i più famosi sono quelli ottomani, che hanno occupato l’immaginario occidentale già dalla spettacolare conquista di Costantinopoli da parte di Maometto II nel 1453. La parola harem, dall’arabo ḥarīm (حريم), è una leggera variante della parola ḥarām, «proibito» (questa a sua volta legata a ḥalāl, il suo contrario, «lecito»). L’harem ha a che fare con lo spazio privato e le norme che lo regolano: è il territorio dell’obbedienza. Tradizionalmente, nei primi secoli dell’ègira, la casa – territorio delle donne – è lo spazio della vita, del sesso e della riproduzione. L’harem affonda le sue radici linguistiche nello spazio sacro all’interno del quale è proibito cacciare e fare la guerra: lo spazio della vita, appunto, uno spazio ḥarām.
Evidentemente, superando il mare e la frontiera con l’Occidente, la parola araba ḥarīm deve aver perduto il taglio pericoloso, ritrovandosi associata all’euforia e all’assenza dei limiti. L’harem pensato dagli occidentali è un festino orgiastico, un voluttuoso bengodi fatto di sesso sfrenato entro cui le donne, vulnerabili e nude, erano felici di essere rinchiuse. Gli artisti dell’islam sembrano essere più realisti nella rappresentazione, persino nelle loro fantasie espresse tanto nelle miniature quanto in letteratura, si aspettano dalle donne un’acuta coscienza della disparità nell’istituzione dell’harem, e pertanto una scarsa disposizione a impegnarsi nel soddisfare i desideri dei loro aguzzini. Nell’arte islamica le donne sono rappresentate come agenti attive, mentre Matisse, Ingres, Picasso e Gérôme le mostrano nude e passive. I pittori musulmani immaginano le occupanti dell’harem ricoperte di vesti guerresche e pesanti nell’atto di cavalcare destrieri veloci armate di arco e frecce: nelle loro miniature le donne sono partner sessuali evidentemente incontrollabili. Qualcuna ha calibrato così bene il suo potere dall’harem da organizzare assassinî: la famosa e bellissima Hayzurān, madre di Hārūn al-Rašid e del califfo Mūsā al-Hādī dal glorioso e brevissimo regno di un anno e due mesi, nell’ottavo secolo. Al-Hādī commette un tragico errore: relegare la madre nell’harem impedendole di partecipare ai giochi di potere della corte ottomana. Poiché amava il potere e soffriva a starsene rinchiusa, Hayzurān si decide a ricorrere all’unica arma possibile nella sua posizione, e organizza l’omicidio del figlio. Raccomanda alle sue più belle ǧariyah, le schiave del califfo, di penetrare nella camera di al-Hādī durante la notte e soffocarlo coi cuscini. Le ragazze avrebbero posato sul capo del califfo i cuscini per gioco, e poi vi si sarebbero sedute sopra fino alla sua morte.
Ma allora, da dove l’hanno tirata fuori gli occidentali questa idea dell’harem come covo di perdizione e desideri maschili soddisfatti?
Nelle immagini europee di questo spazio, le donne non hanno né cavalli né arco né frecce. I loro harem dipinti, al contrario di quelli ottomani, non parlano di guerra tra i sessi, con l’harem che resiste e manda all’aria i piani degli uomini – e a volte diventa il centro del potere, confondendo califfi e imperatori. Una parte di colpa ce l’ha Gustave Flaubert, quando parla di Kuchuk Hanem. Flaubert incontra una cortigiana egiziana, Kuchuk Hanem (dal turco kuçuk hanım, «piccola signora»), che è stata una famosa e bellissima danzatrice di Esna, vicino Luxor, in Egitto. Viene citata in diversi racconti oltre a quelli di Flaubert, e tra i più famosi il resoconto del viaggio in oriente di George William Curtis, un avventuriero americano. Flaubert la incontra durante il suo soggiorno egiziano tra il 1849 e il 1851, e ne fa la sua modella letteraria per le danzatrici protagoniste dei racconti La tentazione di Sant’Antonio e Erodiade. È in quel momento che per Edward W. Said nasce un paradigma letterario della donna araba destinato a durare nel tempo, e lo scrive in Orientalismo, (traduzione di Stefano Galli, Feltrinelli): «ella non parla mai di sé, non esprime le proprie emozioni, la propria sensibilità o la propria storia. È Flaubert a farlo per lei. Egli è uno straniero di sesso maschile e condizione relativamente agiata, e tale posizione di forza gli consente non solo di possedere fisicamente Kuchuk Hanem, ma anche di descriverne e interpretarne l’essenza». Docile, sottomessa, Kuchuk entra nell’immaginario occidentale dell’esotico e, assieme alle schiave nude e lascive immaginate e poi trasferite sulla tela dai pittori europei come nel Bagno turco di Ingres, cambia da questo lato del mare la nozione di harem trasmutando la segregazione in baccanale.
* Giorgia Sallusti (Roma, 1981) è libraia e bibliofila, yamatologa, femminista. Scrive di libri su alcune riviste, tra cui Altri Animali e minima & moralia.