Speravo de morì prima. E invece…

di Arianna Galati*

E se la smettessimo definitivamente di ragionare solo per contrapposizioni? Certo, la nostra identità si forma sempre opponendoci all’Altro, chiunque esso sia, e si costruisce sul rapporto antitetico ragione/torto. L’identità di Francesco Totti nell’ultimo anno e mezzo della sua carriera si è per forza costruita in contrasto diretto con quella di Luciano Spalletti, il suo ultimo allenatore. Ragione e torto, ragione e sentimento. Roma e la Roma. Il Capitano e l’Allenatore. L’uomo e il calciatore professionista. Sarebbe facilissimo giocare solo su questo in Speravo de morì prima, la serie tv Sky Original ispirata a Un Capitano, il libro biografico di Francesco Totti scritto con Paolo Condò: l’eroe e l’antagonista, manuale di Vladimir Propp sottomano, ed ecco che la storia si scrive da sé. Semplice e d’effetto.


Ma che palle, va detto. La vita è altro, anche nelle rappresentazioni. La costruzione di un addio è lunga, elaborata, dolorosa e contraddittoria; prendere coscienza della propria finitezza nel campo dove si è sempre stati eccelsi, è accidentato come le strade di Roma, frustrante come uno stadio vuoto dove risuonano echi di incubi. Fa male oscillare tra gli opposti, è una sfida snervante dentro cui si cade senza volerlo. Un viaggio metaforico che nessuno vorrebbe compiere, ma che dopo permette di crescere.

Sta qui, in questa lettura da romanzo di formazione che è stato l’ultimo anno dell’eterno Pupone, la chiave per comprendere il lavoro di messa in scena di Speravo de morì prima. Rischioso, certo: come fai a portare l’aura divina dell’eroe per antonomasia a livello mortale senza farti male sul serio? Giocando. Sulle contrapposizioni, ovviamente. I piani narrativi del grottesco (con Antonio Cassano trasformato in Grillo Parlante) e del comico (le battute al fulmicotone) si intrecciano alla giusta retorica, al romanticismo del calcio e dell’amore vero, alla cronaca quotidiana delle radio sportive e dei giornali di ogni tipo, al thriller psicologico tra contendenti. Tagliare i sentimentalismi, spostare il punto di vista dal Totti intoccabile al Totti umano, è lo storytelling che funziona. Rende l’eroe più vicino a noi, fallibile, errante nell’inconsapevole landa di chiusura di un ciclo personale che era inevitabile. Pietro Castellitto è un mostro di mimesi vocale, al limite della sottotitolazione per non romani, nel suo modo di puntare la fonazione quasi senza aprire le labbra, rendendo evidente il tratto interiore dell’incessante sfinimento mentale di fronte alla inevitabile fine. Gianmarco Tognazzi firma con sguardi e movenze un Luciano Spalletti di magistrale scomodità, quell’antipatia fastidiosa cui tocca controvoglia, ogni tanto, dare ragione morale pur cercando di difendere il proprio onore. Greta Scarano incarna il vero sostegno fisico e morale, quella Ilary Blasi che non voleva fare solo la moglie del calciatore e si dimostra umana nel suo essere determinata, disubbidiente, accogliente, ragionevole confidente e conforto dei dubbi esistenziali di Totti. Liberarsi dei pregiudizi e accostarsi a Speravo de morì prima senza fatalismi è il modo migliore per godersi una narrazione che avrebbe potuto esagerare sull’epicità, ma ha scelto di non farlo. E anche solo per questo coraggio, va premiata.

* Freelance di spirito, scrive di food e attualità per Marieclaire. In parallelo è voce professionista e audio consultant, e coltiva il sogno di arrivare a parlare in FM. Cerca sempre storie belle da raccontare.