1983

Racconto di Liborio Conca* ispirato a I like Chopin dei Gazebo

Ci ricordammo che al piano di sopra doveva esserci un pianoforte al momento giusto della serata, quando molti drink erano già girati intorno al tavolo e poi sugli scaffali del mobile che un tempo la zia di Pedro usava per riporre i suoi capolavori di piccola sartoria casalinga e che adesso era pieno di bicchieri. Eravamo una quindicina, a casa di Pedro (lo chiamavamo così da quando era ragazzino, perché somigliava a un messicano che avevamo visto in un film); io me ne stavo perlopiù con Enzo, Armando e Ale, cercando di non perdere mai d’occhio Sara. Seguivo la sua figura nello spazio, mi sembrava di cogliere nell’aria uno spostamento quando si muoveva. Ogni tanto incrociavamo lo sguardo. In realtà non così “ogni tanto”: un paio di volte, forse tre, perché cercava un accendino o un bicchiere da qualche parte e io ero nella linea di fuoco giusta. Noialtri con Enzo e Armando e Ale ridevamo un sacco, eravamo felici e mettemmo perfino in ordine i motivi di questa felicità. Maggio, la sessione universitaria ancora lontana, le canzoni che trasmetteva la radio, la disponibilità di alcol, il fatto che la serata fosse ancora lunga, una sensazione di fiducia ingenua ma concreta per il prossimo futuro. A questo elenco collettivo aggiungevo mentalmente il vestito di Sara – e quello che conteneva.
«Il pianoforte, proviamo a vedere com’è messo il pianoforte», fece Pedro; un paio di anni prima ci si era allegramente esibita Stefi, che adesso stava a Torino da dove ci spediva lettere e cartoline. Salimmo quasi tutti al piano di sopra, dove uno stanzone pieno di vecchi arnesi dava sulla terrazza. La sera era fresca e sapeva già di estate. Al tocco di Pedro capimmo che il pianoforte aveva un’accordatura figlia del tempo passato a prendere polvere e dell’assenza di Stefi. L’euforia non richiedeva tempo da perdere, lasciammo lì il pianoforte nella polvere e ci spostammo in terrazza. Continuammo a bere e poi Tiziana e Ale iniziarono a ballare da una musica che arrivava dal palazzo di fronte insieme all’eco di altre risate.
Per un po’ provai a imitarli ballando, ma mi arresi subito. Quando rientrai per scendere a riprendere una lattina dal frigorifero scorsi Sara che armeggiava al pianoforte. Con quei tasti scordati era riuscita ad accennare le note di una canzone che stavamo ascoltando prima di sotto, uscita da pochi giorni. La riconobbi subito. Le note arrivavano sghembe e incerte. Lei stava canticchiando sopra Used to say, I like Chopin, e mentre intonò il verso successivo incrociò il mio sguardo.

* Giornalista, scrittore. Attualmente in libreria con RockLit (Jimenez)