Un racconto di Sara Mariotti* ispirato alla canzone Bene di Francesco De Gregori
Bene, se mi dici che ci trovi anche dei fiori in questa storia sono tuoi.
Mi scrivi una volta all’anno per dirmi che la vita che hai scelto ti piace e che voltarti indietro è una perdita di tempo e tu, del tuo tempo, ti prendi cura.
Delle mie mani che invecchiano senza grandi aspettative mi domandi solo se sono ancora sole, o se invece sparecchiano la tovaglia in compagnia.
Mi sorprendi sempre con un’incombenza quotidiana che per te significa dividere la propria sorte con qualcuno, o forse moltiplicarla, non lo so; a un certo punto hai persino azzardato l’esistenza di un cane, avevi pensato a tutto, anche al nome che gli avevamo dato io e qualcun altro.
Io non mi scompongo mai e gioco ai tuoi giochi, con le tue regole.
«Sto bene», una volta all’anno te lo dico con una leggerezza che sembra essere la rappresentazione più sincera della realtà.
Ci siamo detti tutto, e non ci siamo mai sentiti così liberi di non dirci niente: è facile accordarsi sul nulla.
Di quando eravamo instancabili l’uno dell’altra ricordo soprattutto il mare e la tua Punto bianca, schiacciavi spesso l’acceleratore, avevi fretta e anche io ne ho avuta troppa.
Ho cominciato proprio dal tuo modo di guidare: non lo sopportavo.
Tu ridevi di me, ma una volta hai investito un cinghiale, l’hai soltanto ferito, e lui ha soltanto scavato un solco sulla carrozzeria della tua auto. Un pareggio, a danni fatti.
Mi sono sentita spesso un cinghiale e poi un parafango sfondato, ero sia l’uno che l’altro a seconda del momento in cui raccontavo questa storia: non riuscivo a decidermi.
Invece, al tuo spavento non ho mai dato peso, come se tu non fossi mai stato al volante e questo non fosse altro che un mio cimelio, forse ero io alla guida. Allora, ho avuto ancora più paura. Sono io il guidatore, il cinghiale e poi la botta sull’auto: ho perduto così l’innocenza dei vent’anni e adesso che ne ho quasi il doppio sono pochi i ricordi superstiti, e tutti dalla parte sbagliata, cambiano forma e colore, sono disonesti, ma cercare di raddrizzarli è un impegno troppo grande per chi come me ha pochissima ambizione.
O piuttosto, aggiustare il passato nel presente per farlo funzionare al futuro è una follia e tu non sei pazzo.
Ti credo quando mi lasci intendere che sei felice, perché le parole hanno ragione e non chiedono prove, io non te ne chiedo più.
Anche se ti avessi davanti abbasserei lo sguardo per non vedere che ti pizzica il naso tutte le volte in cui parli di tua madre come se fosse anche la mia e io dovessi capire a che punto di pericolo siete.
Ma io non so ritrovare mia madre nella tua, non so ritrovare neppure la mia nella mia: mia madre si nasconde in un anfratto della mia pancia e non si prende il disturbo di farsi toccare sulla punta del mio naso.
Tua madre somiglia alla mia solo nei nostri alibi, e non ci resta molto altro per cui protestare, puntare i piedi e sperare, poi, che il cielo accolga una sciatta richiesta di indulgenza.
Oppure, hai sempre parlato di me con il nome di tua madre e della distanza che era l’unica cosa a tenerci uniti, forse era semplice capirlo, ma anche così non mi sono riconosciuta.
Era un fatto mio, tu non c’entravi e anzi hai provato a insegnarmi un modo per ascoltarti, ma io ero troppo stanca per reagire con severità ai miei tentativi disastrosi, anche se ricominciavo da capo ogni volta, avrei ricominciato da capo all’infinito, meno male che te ne sei andato; hai dato le spalle al mare e a me, e te ne sei andato.
Tutto il mare che avevo davanti mi è affogato dentro, sono tornata a casa galleggiando in orizzontale.
Però sono sopravvissuta, e anche tu, non mi hai cambiata, non ti ho ringraziato: non ci siamo perdonati.
Mi scrivi una volta all’anno, spesso è il giorno del mio compleanno, non mi fai gli auguri, ma non servono per ricordarci che è passato un altro calendario, un’altra candelina da soffiare, comincia l’inverno vero con la sciarpa attorno al collo e la coperta di pile sul divano; io leggo immaginando la tua voce dentro la testa che è sempre più lontana, ma non sparisce mai del tutto. La vita che hai scelto senza di me ti piace, ti piace soprattutto potermelo dire; però la mia senza di te la trovi intollerabile, io i tuoi anni non li festeggio più, ma non è una posizione abbastanza netta ed è per questo che non te ne vuoi andare.
Così continuiamo a giocare ai tuoi giochi, con le tue regole.
Anche la ferocia del mio «bene, sto bene».
Anche quella l’hai scritta tu.
*Sara Mariotti è abruzzese dal 1982, vive a Roma. Ha una laurea in Giurisprudenza, lavora di questo. A volte scrive: una volta ha scritto con Babalot i testi per Dormi o mordi, racconti per Abbiamo le prove e Rivista inutile, e altre cose qua e la’. Fa parte della redazione di Rivista inutile.