Il contrabbando del Rock

Racconto di Arianna Galati* ispirato a La mia banda suona il rock di Ivano Fossati.

Uàn, ciù, uàn ciù, cek cek.
No, il doppio colpetto di dita sul microfono, no. “La membrana rischia di saltare, pure se lo fanno tutti no, non farlo” aveva detto un tecnico del suono.
Un passo indietro a regolare l’asta all’altezza minima giusta, il metallo freddo sotto le dita. La cantante dovrebbe essere abituata al centro della scena, ma in sala prove il punto di vista è più intimo, le musiciste che regolano volumi e pelli hanno il privilegio di scrutarla meglio. Sono cinque, formano un pentagono storto e precario come la carriera che hanno scelto. Ragazze cresciute a pane e rock’n’roll, vinili di genitori revivalisti mixati a cd ormai polverosi e streaming che scorrono negli auricolari del telefonino, misteriose passioni infuocate e lievi sbandamenti di generi, guilty pleasure formativi e qualche plasticità necessaria per restare nel flusso della classifica, in modulazione di frequenza.

Le onde medie le hanno conosciute sbagliando il tasto sull’autoradio, sono rimaste ad ascoltare stupite quella frittura di rumore bianco incomprensibile prima di ridere sul riempirlo di musica. “Contrabbando di rock” ridevano masticando le sillabe di un’attività fumosamente romanzata, nella macchina bloccata dentro la nebbia di una notte infinita. Uàn ciù, uàn, ciù. La tensione buona, l’aspettativa liberatoria di quel pomeriggio di prove, corre con un’energia potente e sotterranea. Un pentagramma di personalità armoniche, simili e assieme diversissime, in accordo limpido a volte dissonante, come se ognuna facesse il bequadro delle alterazioni in scala altrui. C’è quel rock, però, che le tiene sul lato soleggiato della strada, il passaporto che le lascia a fiato corto e felicemente scariche, svuotate, libere. È il loro segreto inconfessato, la sensazione del suonare rock in un’epoca di calendari che registrano ventennali, trentennali, cinquantennali. Il vecchio rock un po’ bambino, e loro bambine latine che non ne copiano il mero stile, no, lo vivono con l’autenticità di chi non ha niente da dimostrare. Le chitarre scaldano le dita ripetendo riff diversi, ma c’è un’armonia lieve di suono che riesce ad trovare contatti pure nella singolarità delle scale scelte. Il basso manda un feedback cupo dall’amplificatore, un eccesso di volumi interrotto rapidamente da un paio di slap fintamente aggressivi.

Uàn ciù, uàn ciù, ripete la voce nel microfono, muovendo millimetri di equalizzazione sul mixer alla ricerca del tono che le piace davvero. Il tonfo della cassa della batteria interrompe la confusione, il segnale non convenuto che indica l’inversione di rotta dall’anarchia sonora. Si guardano negli occhi, il colpo secco sul rullante è il rituale dell’unisono: “Per chi l’ha visto e per chi non c’era, forza”.

(L’unica canzone di Fossati che lui abbia ripudiato pubblicamente è l’unica che mi piace. Non è un caso)

* Freelance di spirito, scrive di food e attualità per Marieclaire. In parallelo è voce professionista e audio consultant, e coltiva il sogno di arrivare a parlare in FM. Cerca sempre storie belle da raccontare.