Il bambino che non poteva andare a scuola. Un estratto del libro per il Giorno della Memoria

Per gentile concessione della casa editrice Manni, in occasione del Giorno della memoria pubblichiamo un estratto del libro Il bambino che non poteva andare a scuola. Storia della mia infanzia durante le leggi razziali in Italia di Ugo Foà.

Quando vengono promulgate le leggi razziali, nel 1938, Ugo ha 10 anni, sta per iscriversi alle scuole medie. Ma all’inizio di settembre, prima che ricominci l’anno scolastico, sua madre gli comunica che, in quanto ebreo, non potrà tornare tra i banchi di scuola.


Chi sa se c’era un clima strano attorno a noi ebrei; io non me ne accorgevo, ma magari il nonno rabbino aveva già le antenne dritte: il 14 luglio sul “Giornale d’Italia” era stato pubblicato in prima pagina il cosiddetto “Manifesto della razza”, in cui si spiegava che alcuni scienziati, professori e intellettuali fascisti, insieme al Ministero per la Cultura popolare (il Minculpop), volevano chiarire la posizione del fascismo nei confronti della questione razziale. Era diviso in dieci punti: il primo affermava che “le razze umane esistono”, poi che “la popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana”, “È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti” e, al punto 9, che “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana”.
Razza?, ariani?, razzisti? Per me non voleva dire niente, io ero un bambino, sapevo bene di professare una religione diversa dalla maggior parte dei miei compagni di classe, ma non significava che non facessimo le stesse cose, gli stessi giochi, gli stessi compiti.
Il 5 settembre però fu pubblicata la prima delle leggi razziali, e mi riguardava da vicino, da vicinissimo: il Regio Decreto Legge 1390 proclamava “la difesa della razza nella scuola fascista”, e dunque escludeva dalle scuole, con effetto immediato, gli alunni e gli insegnanti “di razza ebraica”, ossia “colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se egli professi religione diversa da quella ebraica”.
Eh sì, parlava proprio di me.

La mamma ci chiamò in cucina, ci disse che quell’anno non avremmo iniziato la scuola: niente ginnasio per me, e niente scuola neanche per i miei fratelli.
Ero frastornato, non capivo: avevo paura di aver fatto qualcosa di male, che fosse una punizione.
Quell’anno sarei andato a scuola con i fratelli maggiori, avremmo fatto la strada insieme fino al liceo, li avrei trovati nei corridoi, e all’uscita, doveva essere un anno speciale. Avrei anche smesso di indossare il grembiule nero, che nascondeva le macchie d’inchiostro dei più piccoli. Sarei diventato grande, insomma.
Ma ora tutto svaniva, mi strappavano una cosa mia e non capivo perché. E poi, sarei rimasto ignorante? Come si poteva smettere di andare a scuola così presto, con tutto quello che avevo da imparare? Non avrei visto più i miei compagni? Come avrei passato la giornata?
Scoppiai a piangere, ero umiliato, sentivo l’ingiustizia di quello che stava succedendo. Ma mia mamma era una donna forte, avrebbe trovato una soluzione.
Però, la questione non era solo la scuola. Quei mesi avevano in serbo altre brutte sorprese.

Qualche giorno dopo era sabato, il sabato fascista. La mamma era una donna rigorosa e razionale e, davanti all’incertezza se dovessimo andare all’adunata, pensò che, visto che non c’era stato alcun divieto esplicito, anche gli ebrei potessero, e anzi dovessero partecipare.
Remo e io ci andammo, forse un po’ perplessi. Il comandante della Milizia volontaria fece il solito discorso di esaltazione del fascismo, ma quella volta aggiunse: “Dovete essere degni di essere fascisti. E gli ebrei sono indegni di essere fascisti”.
Remo e io ci guardammo negli occhi, e ci facemmo coraggio. Alla fine dell’adunata andammo a parlare con il comandante, e un po’ imbarazzati gli chiedemmo: “Noi siamo ebrei: dobbiamo venire alle adunate?” Ora sembrava imbarazzato anche lui. Forse pensava che gli ebrei non fossero persone in carne e ossa, bambini in calzoncini e fez come quelli che gli stavano davanti. Andò a parlare con un altro ufficiale, e poi tornò con il verdetto: “Andate a casa e non tornate più”.

Per un mese stemmo nell’incertezza, soprattutto non si capiva come si dovesse fare per i miei fratelli minori, quelli che dovevano frequentare la scuola elementare la quale era obbligatoria. La soluzione del governo era che si creassero delle multiclassi, con almeno dieci bambini, anche assortiti dalla I alla V elementare. Ma a Napoli la comunità ebraica era piccola, e i bambini ebrei in età da elementari erano in tutto nove: così la multiclasse non si poteva costituire.
La mamma andò a parlare con il direttore scolastico che stava adoperandosi per formare la classe speciale, doveva iscrivere mio fratello Dario alla II. E lui le disse: “Lei ha anche un altro figlio da iscrivere”. “No”, rispose mia madre, “ne ho tre più grandi, e poi Tullio che è del ’33, ancora manca un anno per le elementari”. “Ci pensi bene, signora: Tullio è del ’32, deve frequentare la I”. “No no, le dico che è del novembre ’33”. “Cara signora, Tullio è del ’32, ed è il decimo ragazzino della multiclasse”. Così, mio fratello minore iniziò la scuola in anticipo.
Per noi altri fratelli maggiori la questione era più complicata, perché non era prevista alcuna soluzione che ci consentisse di frequentare.
La mamma si diede da fare molto, e poi forse anche grazie a suo padre era in contatto con il resto della comunità ebraica, e allora trovò dei miei coetanei che si sarebbero dovuti iscrivere come me al ginnasio, e dei professori ebrei che non potevano più insegnare nella scuola.
Iniziò allora una scuola non-scuola. Ed era meglio di niente.
Ma, mi chiedevo: chi mi avrebbe detto se ero stato promosso, dato che non avrei avuto la pagella?