Arrivano dei momenti in cui sintassi, virgole e congiunzioni saltano via come punti da una ferita irregolare, ancora infetta, e la lingua narrativa, per quanto mimetica, vicina un parlato di provincia, di registro basso, subisce una mostruosa e ulteriore mutazione in shitposting; un agglomerato confuso, irrazionale, fetido, in cui la vera struttura del testo è costituita da ripetizioni ossessive e bestemmie univerbate, minuscole o in caps lock.
È l’anima in pena che parla dall’interno di Crocevia di punti morti, opera d’esordio di Matteo Grilli, pubblicata da Effequ (2020). Un’anima in pena che cerca di darsi una forma, pur avendo coscienza di essere poco altro che fango e secrezioni viscose: un abominio che viene dalla desolazione, dallo strapaese italiano visto di sfuggita in autostrada, a cavallo tra i Novanta e il Duemila, dove sembra che solo grazie al miracolo di qualche apparecchio elettronico ormai in disuso si sia sventata l’ecatombe di un’intera generazione di ragazzi persi tra campi incolti, case e negozi abbandonati e edifici infestati dai fantasmi di un piccolo boom economico.
Tutto ha inizio dal Pozzo: tutto sembra generarsi da questo punto profondo, vero reticolo sotterraneo, per poi farvi ritorno.
Persone, dialoghi, luoghi, frazioni di luoghi, oggetti. Il Pozzo è un paese. Dal paese, come da ogni paese, c’è una generazione in fuga: Celeste, Massimo e Leonardo. Via dall’incubo. Incomprensioni, dolori, depressione; e poi i sogni irrealizzabili. Sotto il cielo opprimente di una marginalità senza fine, nulla è possibile. Ognuno di loro, coi propri mezzi, col proprio linguaggio, cerca solo e soltanto di sfangarla. Massimo, forse il più lanciato dei tre, alla fine scrive storie per il cinema che nessuno ha mai prodotto e mai produrrà. Leonardo si arrabatta come può fra stage per un’azienda dal fine imprecisato e pomeriggi narcotizzanti davanti a video ASMR; Celeste vorrebbe solo dare gli esami al momento giusto, senza finire troppo fuori corso.
Su tutti e tre il marchio del Pozzo pesa come una maledizione: nonostante gli sforzi, tutto scivola verso il basso a rallentatore: e a loro è dato solo guardare.
Crocevia di punti morti mescola il racconto generazionale, puntellato di riferimenti e feticismi culturali pop (It di Stephen King è ben più che una stella polare di questo romanzo), al weird post –umano, industriale, internettiano. È, nonostante la forte atmosfera eterea, onirica, digitale – un vaporwave fantastico –, romanzo di sentimenti, di cose umane e traumi giovanili, dove il sonno di un drago antichissimo coesiste col dramma di non saper tenere in piedi la propria emotività, o non riuscire a gestire una rottura sentimentale senza voler sprofondare nell’oblio. Gli strascichi lunghissimi dell’adolescenza tipica di un millennial.
Non è un romanzo puramente di trama: si procede a piccoli episodi e strappi, pur avendo il racconto una sua struttura ordinata e concentrica – ogni personaggio è a suo modo, come il Pozzo stesso, un altro cerchio nel cerchio –, emanata e poi richiusa sulla figura del Pozzo, a sua volta nata sul presupposto di un vero e proprio elemento fantastico: il Drago Tau, gigantesco e dormiente, la cui magia dà vita allo straniamento, alla possibilità di eventi che rendono la cupissima vita di provincia un portale sullo strano, l’inquietante fantastico.
Sembra, alla fine, come vedere una foto panoramica scattata da un vecchio smartphone glitchato: troppo imperfetta per trarne un’immagine appagante, eppure così strana da non riuscire a trattenersi dal guardarla con la coda dell’occhio.
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