di Mabel Morri *
L’idea delle “figurine” (ritratti in formato “foto di una volta” 10×15) nasce da un percorso di studio per tornare a codici di disegno che era quello con cui, vent’anni fa, avevo iniziato la mia carriera di fumettista. La prima serie infatti sono disegni a matita su pezzi di fogli vari, dalla carta da cucina a semplice da fotocopia; a fine giornata lavorativa, in quel lasso di tempo di pre cena, o aperitivo se preferite, creavo questi ritratti per il puro piacere di disegnare, semplicemente. La seconda serie, quella del 2020, è decisamente più strutturata, originali inchiostrati con china e spesso colorati ad acquerello e molto legata a ciò che accadeva nel momento stesso nel quale andavo a realizzarli, da una tendenza su Twitter alla notizia da quotidiano.

Soprattutto la figurina di Harley Quinn sembra quella fuori dal coro, un qualcosa di solo mio in questo mondo in streaming, in questo Natale in streaming così diverso, una figurina che quasi mi ricorda la spensieratezza dell’infanzia, quando i problemi se non c’erano almeno erano altri.

Di questo periodo scelgo decisamente un medico, Nicola Sgarbi.
Nessuno poteva immaginare, fino al suo post del 16 marzo, cosa significasse lavorare in ospedale, quali atrocità vedevano gli operatori e quali segni lasciava sulla pelle e nell’anima. L’Italia e la sua retorica ha iniziato a chiamare i medici, gli infermieri, gli oss e il resto di chi opera nella fascia ospedaliera “eroi” dopo quella sequenza di foto, tra cui questa.

Intanto eravamo in lockdown e ci abbuffavamo di lavoro agile e serie tv. Netflix e YouTube annunciano il calo di qualità per il sovraccarico delle linee e io penso a tutta la generazione di anziani e partigiani che piano piano se ne va (come Lidia Menapace). Un pezzo di storia che avrebbe potuto ancora essere importantissimo nell’analizzare il nostro tempo. Ma è Dora Carboni che mi viene in mente. Dora era la proprietaria del quasi mitologico Bar Vettore di Pretare, frazione di Arquata del Tronto. Era uno di quei bar nel quale dovevi fermarti per forza quando attraversavi i Sibillini: orde di motociclisti, escursionisti, famiglie in vacanza a prendere il fresco, e quando si fumava la sigaretta voltavi la testa verso destra e il Monte Vettore ti guardava imperioso e maestoso.
Il Bar Vettore oggi è un cumulo di macerie dopo il terremoto del 24 agosto 2016. Solo questa estate, quando, come ogni anno, vado laggiù, osservo che le macerie sono state portate via. Un altro bar, crollato anch’esso e del quale è rimasta salva solo l’insegna che è una tavola in legno, è l’Antico Bar. Il proprietario, Sergio, è un uomo completamente distrutto, non ha più una lacrima e un sorriso. Tra le macerie, quella notte, scavò a mani nude salvando il nipote ma non riuscì a fare nulla per la sorella, che era nella stanza accanto.
Ci dimentichiamo troppo spesso del terremoto. Sono tornata ad abitare in una città di mare, ma i miei primi anni marchigiani sono stati in paese, vedendo i Sibillini all’orizzonte: di terremoto non ne ho perso uno e ciò che non dicono è che la terra trema ancora.
Dora dovrebbe avere 96 anni, o almeno quando ho chiesto di lei in estate c’era ancora, era ancora viva. Abita in una delle casette che stanno lì, sempre a Pretare, casette oggi che sono vissute come lo è una casa di proprietà. E vederle, credetemi, fa malissimo. Gli abitanti sorridono incredibilmente quando si chiede di lei, di Dora, e in quei momenti capisci la comunità, ancora ferita, ma unita come non mai.

Quando penso ai “cervelli in fuga” non penso solo a coloro che scelgono l’estero per migliori condizioni di lavoro e di vita, penso anche a chi in Italia ci era rimasto, a eccellenze della mia generazione che mancheranno. C’erano anche chi aveva scelto l’Europa perché ci credeva o chi in Italia non aveva avuto la possibilità di fare ciò che sognava, come dissero i suoi genitori a un evento al quale partecipai a Jesi. Nella serie di figurine disegno Alessandro Leogrande, Mattia Torre, Antonio Megalizzi, Giulio Regeni e poi Ezio Bosso. Ezio Bosso…

Dopo l’estate, in autunno apparentemente sembra che si sia tornati a vivere “come prima”. Riprendono campionati e gare sportive: il ciclismo è tra questi. Quando penso al progetto, il Giro d’Italia sta finendo e si accavalla alla Vuelta che sta iniziando: decido che, mettendomi alla prova, posso fare “Le Figurine de La Vuelta”, una figurina al giorno, non solo i vincitori, spesso i gregari, ancora meglio le anime e le storie dei ciclisti. Ogni giorno è una scoperta. I ciclisti sembra sempre che siano persone che fanno solo quello, pedalare, invece, spesso, i motivi per cui arrivano a farlo, o quello che sono come esseri umani, sono incredibili. Ho disegnato Chris Froome, Guillame Martin, Alejandro Valverde, Esteban Chavez, Jakob Marezcko, Sepp Kuss, David Gaudu, Thibaut Pinot, Primoz Roglic e altri, ma è l’etiope Tsgabu Grmay che mi affascina. L’aereo per l’Etiopia è l’ultimo che ho preso prima della pandemia: un viaggio nel quale insieme a una ONG sono andata a vedere l’operato della stessa. E ho visto ciclisti nella baraonda che è Addis Abeba. L’Etiopia ha qualcosa di casa, magari una casa la cui storia riempie di vergogna, profonda, ma non odiano gli italiani, piuttosto è evidente la delusione per ciò che hanno lasciato: la corruzione, la povertà, la promessa di una vita migliore che non è arrivata.
Tsgabu Grmay porta nel mondo il suo essere orgogliosamente etiope, prova a far conoscere il suo paese nonostante tutte le contraddizioni dei paesi africani, come il nostro d’altronde, e prova a far conoscere la bicicletta come mezzo: di fuga, di possibilità, di libertà.

Quando le code al Lidl per accaparrarsi la nuova linea giallo/blu/rossa del supermercato di sneakers, calzini, ciabatte e maglietta diventa trending topic di Twitter per un attimo si ha la sensazione che il mondo abbia bisogno d’aria dopo il soffocamento della prima ondata, come se interessarsi a queste frivolezze fosse più uno stimolo di sopravvivenza che non vera necessità. Sta nel mezzo, forse, la verità. E anche qui sembrano trascorsi anni luce quando dire che si faceva la spesa al Lidl era quasi un’onta, oggi che invece si mostrano sui social, con un pizzico di orgoglio, gli accessori comprati facendo a gomitate. Mio padre, per dire, ha ovviato sulle ciabatte di Harry Potter. Che mio nipote quasi gli invidia.

Nel mezzo la crisi della cultura, dall’editoria all’intrattenimento. Le piattaforme di streaming hanno quasi salvato la resistenza dello stare in casa e anche io che sono appassionata di tanti argomenti non necessariamente seguivo le serie del momento nel quale tutti ne parlavano, ma arrivando magari in ritardo recupero SKAM Italia che trovo bellissimo e fondamentale e “Derry Girls”, altrettanto splendido. Ci si dimentica che il 2020 è stato anche l’anno del lancio di Disney +, Disney che detiene i diritti tra gli altri della saga di Star Wars. Per cui quando arriva “The Mandalorian” è ovazione. Disney + permette la funzione del group watching e dunque di interagire insieme: è ovvio, non è come vedere un film con i nipoti ma è un discreto compromesso per le distanze e un gusto quantomeno del ricordo, quello di vedere i film al cinema con loro, anche se la metà della proiezione non si segue.
“The Mandalorian” non è perfetto, ma lo è per i puristi di Guerre Stellari che gongolano tra un universo e l’altro, compresa me. Oltre al fatto che The Kid, chiamato erroneamente Piccolo Yoda (ma si scoprirà poi il suo vero nome), è talmente adorabile che è quasi commovente.

Quando il 15 settembre 2020 esce in edicola il primo numero del nuovo quotidiano fondato da Carlo De Benedetti (artefice anche del quotidiano che ha fatto la storia dell’informazione in Italia ma decaduto inesorabilmente, “Repubblica”) dal titolo “Domani”, c’è curiosità e disappunto. Curiosità perché un giornale nuovo in un’epoca così depressa a livello culturale e di carenza di lettori è sempre salutata come una possibilità, disappunto quasi per gli stessi motivi ma dalla prospettiva contraria, portando alla domanda “Ma ce n’era davvero bisogno di un altro giornale?”. E la risposta è un sì a caratteri cubitali. Sì, Sì e Sì. Me ne innamoro dal primo numero. Tornare in edicola non è mai stato così bello e lo cinguetta persino Paola Turci su Twitter.
Domani è la speranza di un giornalismo fatto bene, senza possibilmente fazioni ma che offre uno specchio serio, competente, anche scomodo di ciò che è l’Italia oggi. L’Italia ha una tradizione giornalistica straordinaria, deturpata dai modelli dei grandi gruppi ha rovinato giornali e con essi anche molti professionisti che si sono messi un po’ troppo comodi sulle loro poltrone. Domani invece ci ricorda che il giornalismo è un’arte e come tale va rispettata e fatta nel migliore dei modi, oltre a essere attento a firme magari (non ancora) di richiamo da mainstream ma almeno non all’ombra delle grandi firme e, nel mio caso, mie coetanee. È dall’epoca del successo di Enrico Brizzi col suo “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” che non vedo gente della mia età occupare il posto che merita con la giusta attenzione. Domani sta riuscendo anche in questo, e va dettando una linea nobile nella scelta degli argomenti.
Non mi sono mai drogata, ma Domani mi dà dipendenza.
Fondamentale nel giornalismo di oggi.

È un anno nel quale se ne va anche Gianni Mura, gli intellettuali non sono immortali fisicamente, lo sono le loro pagine, quelle più preziose. Quasi ci dimentichiamo che si può morire anche di altre, verrebbe da dire sorridendo amaramente, “solite” malattie, e iniziamo a chiedere inconsciamente se sia Covid o meno, addirittura a sorprenderci quando non lo è, ricordando un tempo per cui i cari li si poteva piangere ai funerali, azzerati anch’essi. Carla Nespolo per esempio, Rossana Rossanda, Gigi Proietti pure fanno parte di coloro che se ne vanno senza Covid ma per quelle “solite”.
Il finale anno, da fine novembre a metà dicembre, ci dona il ricordo di due campioni che simbolicamente sono l’infanzia e l’adolescenza che se ne vanno, almeno la mia.
Le morti di Diego Armando Maradona succeduta da quella del nostro Paolo Rossi sono pezzi di cuore che si frantumano, siamo noi bambini e ragazzini che all’improvviso ci guardiamo allo specchio e siamo, inesorabilmente, invecchiati, coi capelli che iniziano a brizzolarsi e rughe sconosciute fino a ieri. Improvvisamente siamo gli adulti che sono stati i nostri genitori e che non avremmo mai voluto essere, zii e genitori noi stessi in quel cerchio della vita che semplicemente, va, passa. Sono i nostri sogni che non ci sono più, figurine su vecchi album che ci ricordano che siamo stati bambini anche noi. È un nodo in gola che ancora non smette di esserci, è la nostra infanzia definitivamente finita.


Ma è stato anche un anno nel quale Loredana Bertè, Renato Zero, Carlo Verdone hanno compiuto 70 anni, un anno nel quale Biden è diventato Presidente degli Stati Uniti, Quino ci ha lasciato la sua Mafalda per l’eternità ed Elettra Lamborghini ci ha regalato perle come “Musica e il resto scompare”.

E allora sì, aspettando curiosa la prima figurina del 2021 che disegnerò, il resto scompare.
Buon Anno.
*Mabel Morri è nata a Rimini nel 1975. Fondatrice della casa editrice indipendente Studio Monkey, ha pubblicato Hai mai notato la forma delle mele? (2002), Vite comuni (2004), Io e te su Naboo (2009) e Cinquecento milioni di stelle (2013). Nel 2002 ha vinto il premio Scenario al festival di Lucerna e nel 2004 il Micheluzzi Strade Nuove al Comicon di Napoli. Nel 2014, ha realizzato le otto colonne della chiesa di San Martino in Riparotta a Viserba di Rimini. Il suo ultimo libro è Il giorno più bello