Torna John Grisham. E lo fa con un romanzo che sembra cucito perfettamente per essere letto sotto l’ombrellone, staccando solo di tanto in tanto gli occhi dalle pagine, per non perdere il contatto con la realtà: come sempre, il maestro dei gialli giudiziari, riesce a tessere una storia affascinante e coinvolgente, nella quale il lettore viene catturato sin dai primi passaggi.
È piena estate e a Camino Island sta per abbattersi un uragano di proporzioni allarmanti. Il governatore della Florida ordina a tutti gli abitanti l’immediata evacuazione dell’isola. La maggior parte fugge sulla terraferma, ma Bruce Cable, noto libraio e collezionista di libri antichi, nonché animatore della vita culturale dell’isola, decide di rimanere sul posto. Come previsto, l’uragano devasta ogni cosa, abbattendo alberi e danneggiando gravemente abitazioni, alberghi e negozi, e purtroppo ci sono delle vittime. Tra queste Nelson Kerr, un noto scrittore di thriller amico di Bruce. Ma la furia della tempesta non sembra essere stata la causa della sua morte. I numerosi colpi alla testa farebbero pensare a ben altro. Chi può aver voluto Nelson morto? La polizia locale non è solita occuparsi di omicidi, meno che mai in un momento di emergenza come questo, e Bruce inizia la sua personale indagine. E se la morte dell’amico fosse legata in qualche modo ai suoi romanzi, e soprattutto all’ultimo romanzo, ancora inedito e custodito nel suo computer? Quello che Bruce scoprirà è molto più sconvolgente dei colpi di scena delle storie di Nelson Kerr.
Per la rubrica Liberi Inizi di questa settimana, ecco l’incipit de L’ultima storia, il nuovo romanzo di John Grisham, edito da Mondadori.
Magari qualcuno, leggendo queste prime righe, deciderà di portarlo in vacanza con sé.
Leo prese vita alla fine di luglio nelle acque agitate dell’Atlantico orientale, circa trecento chilometri a ovest delle isole di Capo Verde. Ben presto fu avvistato dallo spazio, battezzato secondo le convenzioni e classificato come semplice depressione. Poche ore dopo era già stato promosso a tempesta tropicale.
Per un mese i venti forti e secchi del Sahara si erano scontrati con i fronti umidi dell’equatore, creando masse turbinanti che si spostavano verso occidente come in cerca di terraferma. All’inizio del suo viaggio Leo era preceduto da tre tempeste già così potenti da avere ciascuna un nome e chiudeva la fila che incombeva minacciosa sui Caraibi. Le tre tempeste erano destinate a seguire la rotta prevista e a scaricare sulle isole forti piogge, ma niente di più.
Quanto a Leo, fu invece chiaro sin dall’inizio che nessuno poteva prevedere dove sarebbe andato. Era molto più incostante, e letale. Si sarebbe esaurito sopra il Midwest, ma non prima di aver causato danni patrimoniali per cinque miliardi di dollari e ucciso trentacinque persone.
Prima di spegnersi, tuttavia, bruciò le tappe della classificazione, e da tempesta passò rapidamente a uragano in piena regola. Giunto alla categoria 3, con venti che soffiavano a quasi duecento all’ora, investì frontalmente le isole Turks e Caicos, dove spazzò via centinaia di case e fece dieci vittime. Sfiorò la punta meridionale di Crooked Island, deviò leggermente a sinistra, prese di mira Cuba e si arrestò a sud di Andros. Il suo occhio si indebolì, lui perse lo slancio e, regredito a modesta depressione, passò incerto sopra Cuba scatenando piogge abbondanti ma venti mediocri. Virò a sud in tempo per allagare la Giamaica e le Cayman, dopodiché, in uno stupefacente arco di dodici ore, si riformò con un occhio perfetto e si diresse a nord verso le acque calde e invitanti del Golfo del Messico. I suoi inseguitori tracciarono una linea retta fino a Biloxi, il solito bersaglio, ma ormai sapevano che non era il caso di fare previsioni. Leo decideva da sé, e dei loro modelli non se ne faceva nulla.
Ancora una volta crebbe e acquistò velocità molto rapidamente: dopo pochissimi giorni i canali di news gli dedicavano speciali, e a Las Vegas si scommetteva su quale sarebbe stato il suo punto d’approdo. Decine di troupe televisive corsero incontro al pericolo. Comparvero avvisi da Galveston a Pensacola. Le compagnie petrolifere si affrettarono a far rientrare diecimila lavoratori dalle piattaforme del Golfo e, come sempre, gonfiarono i prezzi senza alcun motivo sensato. Cinque Stati attivarono i piani di evacuazione. I loro governatori tennero conferenze stampa. Flotte di navi e aerei andarono a riposizionarsi in ordine sparso su coste più riparate o nell’entroterra. Leo, cresciuto fino alla categoria 4, saliva verso nord oscillando di continuo tra est e ovest, e sembrava destinato a un approdo storico e disastroso.
E poi si fermò di nuovo. Poco meno di cinquecento chilometri a sud di Mobile fece una finta a sinistra, cominciò una lenta deviazione verso est e si indebolì considerevolmente. Per due giorni avanzò placido in direzione di Tampa, e di colpo riprese vita come categoria 1. Tanto per cambiare un po’ mantenne dritta la rotta e il suo occhio passò a St Petersburg scatenando venti a quasi centosettanta all’ora e inondazioni distruttive. Fece saltare la rete elettrica, gli edifici più fragili rimasero travolti, ma non ci furono vittime. Poi seguì l’interstatale 4, scaricò venticinque centimetri di pioggia su Orlando e venti su Daytona Beach e abbandonò la terraferma sotto forma di anonima depressione tropicale.
I meteorologi, sfiniti, lo salutarono mentre arrancava verso l’Atlantico. Secondo i loro modelli si sarebbe dovuto disperdere in mare, causando giusto qualche spavento alle navi da carico.
Leo, tuttavia, aveva altri piani. Percorsi trecento chilometri a est di St Augustine, svoltò a nord e riprese energia: per la terza volta aprì l’occhio, i modelli furono rimaneggiati e vennero diffusi nuovi avvisi. Per quarantott’ore l’uragano non smise di muoversi e crescere, mentre adocchiava la costa come per scegliere un nuovo obiettivo.