Liberi Inizi: per gli ottant’anni dell’Hit Parede, “Alta Fedeltà” di Nick Hornby

Era il 20 luglio del 1940.

Ottant’anni fa esatti, il settimanale statunitense Billboard, specializzato in musica, pubblicò la prima Hit Parade: inizialmente non era la classifica dei dischi più venduti, ma una lista delle migliori canzoni del momento.

Col tempo l’Hit Parade si modificò, si evolse, fino a diventare un fenomeno che segnò, in maniera indelebile, i decenni a venire: essere dentro o fuori dalla classifica significava essere, o meno, all’interno della ristretta cerchia di ciò che valeva davvero. E non solo in musica.

Il fenomeno Hit Parade, infatti, invase ogni ambito culturale, dal cinema alla letteratura, fino allo sport.

C’è un libro che ha costruito la propria fama, proprio su questo particolare concetto di “classifica”, divenendo, anche grazie alla trasposizione cinematografica, una vero e proprio punto di riferimento letterario: si tratta di Alta Fedeltà di Nick Hornby.

Uscito esattamente venticinque anni fa, Alta Fedeltà racconta la storia di Rob, trentacinquenne proprietario di un negozio di vinili a Londra, che nel fermento degli anni ‘90, viene lasciato dalla propria compagna, accusato di affrontare la vita in modo troppo infantile.

Il libro si apre con Rob che descrive le cinque peggiori fregature ricevute dalle donne, e prosegue con il racconto di vari eventi che si sono succeduti e che restano impigliati nella sua memoria, grazie ad un sottofondo di canzoni che fa da colonna sonora alle sue giornate. Mentre cerca di tirare le somme della sua storia finita, Rob stila la classifica delle cinque migliori canzoni, dei cinque migliori film e dei cinque migliori libri: con il concetto di hit cerca di dare un senso a ciò che è accaduto nella propria vita, agli incontri e agli addii, ai ricordi, inquadrando la realtà attraverso queste classifiche che danno stabilità al tempo che passa.

Per la puntata di questa settimana di Liberi Inizi, quindi, ecco l’incipit di Alta Fedeltà di Nick Hornby.

 

una volta…

Ecco, per stilare una classifica, le cinque più memorabili fregature di tutti i tempi, in ordine cronologico:

1) Alison Ashworth

2) Penny Hardwick

3) Jackie Allen

4) Charlie Nicholson

5) Sarah Kendrew.

Ecco quelle che mi hanno ferito davvero. Ci vedi forse il tuo nome lì in mezzo, Laura? Ammetto che rientreresti fra le prime dieci, ma non c’è spazio per te fra le prime cinque; sono posti destinati a quel genere di umiliazioni e di strazi che tu semplicemente non sei in grado di appioppare. Questo forse suona più cattivo di quanto vorrei, ma il fatto è che noi siamo troppo cresciuti per rovinarci la vita a vicenda, e questo è un bene, non un male, per cui se non sei in classifica, non prenderla sul piano personale. Quei tempi sono passati, e che liberazione, cazzo; l’infelicità significava davvero qualcosa, allora. Adesso è solo una seccatura, un po’ come avere il raffreddore o essere al verde. Se volevi veramente incasinarmi, dovevi arrivare prima.

1. Alison Ashworth (1972)

Quasi tutti i pomeriggi, ciondolavamo ai giardinetti che stavano proprio dietro casa mia. Vivevo nello Hertfordshire, ma avrebbe potuto benissimo trattarsi di un qualsiasi sobborgo inglese: il solito genere di sobborgo, col solito genere di giardinetti – a tre minuti da casa, giusto dall’altra parte della strada, davanti a una breve fila di negozi (un supermercato VG, un giornalaio, un negozio di liquori). Niente ti aiutava a orientarti; se i negozi erano aperti (e chiudevano alle cinque e mezza, e all’una il giovedì, e per tutto il giorno la domenica), magari potevi andare dal giornalaio e dare un’occhiata al giornale locale, ma anche questo non era detto che ti mettesse sulla pista giusta.

Avevamo dodici o tredici anni, e avevamo scoperto da poco l’ironia – o almeno, quella che poi compresi essere l’ironia: ci sentivamo liberi di usare l’altalena, la giostra e gli altri giochi per bambini che arrugginivano lì ai giardinetti, solo a condizione di ostentare una specie di distacco voluto e ironico. Il che implicava o affettare distrazione (e in questo caso si poteva fischiettare, o chiacchierare, o giocherellare con un mozzicone di sigaretta o con una scatola di fiammiferi); oppure sfidare il pericolo, e quindi buttarsi dall’altalena quando toccava il punto più alto, saltare dalla giostra quando era lanciata al massimo della velocità, o aggrapparsi al dondolo finché non raggiungeva una posizione quasi verticale. Se in un modo o nell’altro riuscivi a dimostrare che in questi divertimenti infantili potevi rischiarci la pelle, allora giocarci diventava ok.

Non avevamo ironia, però, in fatto di ragazze. Non c’era stato tempo. Un attimo non esistevano, almeno non in un qualche modo per noi interessante, e l’attimo dopo non potevi evitarle: erano dappertutto, erano ovunque. Un attimo avevi voglia di dargli una botta in testa perché erano tua sorella, o la sorella di qualcun altro, e l’attimo dopo volevi… in realtà, non sapevamo mica cosa volessimo dopo, ma era qualcosa, qualcosa. Quasi all’improvviso, tutte queste sorelle (non esisteva altro tipo di ragazze, non ancora) erano diventate interessanti, persino inquietanti.

Vedi, noi non eravamo tanto diversi da prima. C’era venuta la voce stridula, ma la voce stridula non è un grande aiuto – ti rende ridicolo, indesiderabile. E i peli che ci stavano spuntando sul pube erano il nostro segreto, un segreto strettamente conservato fra noi e i nostri slip, e sarebbero passati anni prima che un membro del sesso opposto verificasse che erano proprio dove dovevano essere. Le ragazze, invece, tutto ad un tratto avevano il seno e, insieme a quello, un nuovo modo di camminare con le braccia incrociate sul petto, un atteggiamento che nascondeva e allo stesso tempo evidenziava quanto era appena accaduto. E poi ecco trucco e profumo, sempre da quattro soldi, e usati in modo inesperto, a volte persino comico, ma comunque un segno piuttosto terrificante di come le cose fossero andate avanti a nostra insaputa, senza di noi, al di là di noi. Cominciai a uscire con una di queste ragazze… no, non è esatto, perché io non ebbi alcuna parte nella decisione. Ma nemmeno posso dire che lei cominciò a uscire con me. Il problema sta nell’espressione «uscire con», che sottintende una sorta di parità ed eguaglianza. Invece ciò che accadde fu che Alison, la sorella di David Ashworth, si staccò dal capannello femminile che si raccoglieva tutte le sere vicino alla panchina e mi adottò, mi mise sotto la sua ala e mi portò via dal dondolo.

Adesso non riesco più a ricordare come fece. Credo che lipperlì nemmeno mi resi conto di quanto stava succedendo, ricordo infatti che a metà strada verso il nostro primo bacio, il primo bacio della mia vita, provai una sensazione di totale sbigottimento: non mi capacitavo che Alison Ashworth e io fossimo diventati tanto intimi. Non sapevo con precisione nemmeno come fossi finito dalla sua parte dei giardinetti, lontano da suo fratello, da Mark Godfrey e dagli altri, né come ci fossimo allontanati dal gruppo delle sue amiche, né come lei avesse avvicinato la sua faccia alla mia facendomi capire che dovevo mettere la mia bocca sulla sua. Tutto l’episodio è al di là di qualsiasi spiegazione razionale. Ma le cose andarono proprio così, e si ripeterono, pressoché uguali, il pomeriggio dopo, e quello dopo ancora.

Cosa credevo di fare? E lei cosa credeva di fare? Adesso, se mi viene voglia di baciare qualcuna in quel modo lì, con la bocca, la lingua e tutto il resto, è perché voglio anche altre cose: sesso, venerdì sera al cinema, compagnia e conversazione, fusione della rete famigliare e amicale, che mi si porti lo sciroppo a letto quando sono malato, un paio di cuffie nuove per ascoltare i miei dischi e i miei cd, e forse un bambino che si chiamerà Jack e una bambina che si chiamerà Holly o Maisie, non ho ancora deciso. Ma non volevo nessuna di queste cose da Alison Ashworth. Non i bambini, perché eravamo noi i bambini, non i venerdì sera al cinema, perché al cine ci andavamo il sabato mattina, non il Lempsis, perché a quello ci pensava mamma, e men che meno il sesso, soprattutto non il sesso, per l’amor di Dio non il sesso, l’invenzione più disgustosa e terrificante dei primi anni settanta.

Allora cosa significava quella lingua in bocca? In realtà, non significava un bel niente; eravamo come persi nel buio. In parte era imitazione (persone che fino allora avevo visto baciarsi: James Bond, Simon Templar, Napoleon Solo, Barbara Windsor e Sid James e forse Jim Dale, Elsie Tanner, Ornar Sharif e Julie Christie, Elvis, e un sacco di altra gente in bianco e nero – che però baciandosi non dimenava la testa qui e là – che mamma voleva sempre guardare in tivù); in parte era schiavitù ormonale; in parte era la pressione del gruppo dei coetanei (Kevin Bannister ed Elizabeth Barnes era già un paio di settimane che ci davano dentro); e in parte ancora era cieco panico… Non c’era coscienza, né desiderio, né piacere, se si esclude un calore ignoto e moderatamente gradevole nelle viscere. Eravamo come due animaletti, il che non significa che di lì a qualche giorno ci strappassimo i vestiti di dosso; bensì soltanto che, in senso metaforico, avevamo cominciato ad annusarci i rispettivi posteriori, e non trovavamo l’odore del tutto repellente.

Ma senti, Laura, il quarto pomeriggio, arrivai ai giardinetti e Alison era seduta là, sulla panchina, abbracciata a Kevin Bannister, e di Elizabeth Barnes nemmeno l’ombra. Nessuno disse niente – non Alison, né Kevin, né io, né i maschi ritardati che ancora non erano stati iniziati al sesso e ciondolavano attorno al dondolo. Mi sentii avvampare, arrossii, e tutto a un tratto non seppi più come camminare senza essere consapevole di ogni singola parte del mio corpo. Cosa fare? Dove andare? Non volevo litigare; non volevo sedermi con quei due; non volevo andare a casa. Così, concentrandomi fortemente sui pacchetti vuoti di sigarette N.6 che costituivano il confine fra la zona dei maschi e quella delle femmine, senza guardare né su né indietro, né da un lato né dall’altro, girai i tacchi e tornai verso il branco maschile raccolto attorno al dondolo. Ero a metà strada quando commisi il mio unico errore: mi fermai e guardai l’orologio, ma che mi pigli un colpo se so cosa volessi dare a intendere, o chi credessi di imbrogliare. Dopo tutto, che genere di ora potrebbe obbligare un ragazzino di tredici anni a scappare via da una ragazzina e a dirigersi verso un campo giochi, le mani che sudano, il cuore che batte a mille, cercando disperatamente di non piangere? Certamente non le quattro di un pomeriggio di un giorno di fine settembre.

Scroccai una cicca a Mark Godfrey e andai a sedermi per conto mio sul dondolo.

«Puttana Eva», disse duro David, il fratello di Alison, e io gli sorrisi grato.

Tutto qui. Dove avevo sbagliato? Primo incontro: giardinetti, sigaretta, pomiciata. Secondo incontro: idem. Terzo incontro: idem. Quarto incontro: scaricato. Ok, ok. Forse avrei dovuto vedere i segni premonitori. Forse me l’ero voluta. Forse il pomeriggio del secondo idem avrei dovuto capire che ci eravamo fossilizzati, che avevo lasciato che le cose ristagnassero al punto da spingerla a cercare qualcun altro. Ma lei avrebbe anche potuto cercare di parlarmi! Avrebbe potuto darmi almeno un altro paio di giorni per provare a riaggiustare le cose!

Il mio rapporto con Alison Ashworth era durato in tutto sei ore (le due ore che andavano dalla uscita da scuola al primo telegiornale della sera, per tre volte), così non potevo pretendere di essermi abituato ad averla vicina e di non sapere più cosa fare di me. In realtà adesso di lei non ricordo quasi più niente. Capelli lunghi e neri? Può essere. Piccolina? Sicuramente più piccola di me. Occhi a mandorla, quasi da orientale, carnagione scura? Forse è lei, forse è un’altra. Chissà. Comunque, se dovessi rifare la classifica secondo il dolore provato, anziché in ordine cronologico, Alison passerebbe dritta dal primo al secondo posto. Sarebbe bello pensare che poi sono cresciuto e i tempi sono cambiati, e i rapporti sono diventati più profondi, le donne meno crudeli, la suscettibilità meno accesa, le reazioni più veloci, gli istinti più maturi. Eppure tutto quello che mi è accaduto da allora a oggi mi sembra che contenga sempre qualcosa di quel pomeriggio lì; tutte le mie storie d’amore successive sono come variazioni raffazzonate della prima. Naturalmente, non mi è più toccato di fare una camminata lunga come quella, non mi sono più sentito avvampare le orecchie per una rabbia così forte, e non ho più dovuto contare i pacchetti vuoti di N. 6 allineati in terra, onde evitare occhiate di scherno e fiumi di lacrime… Non mi è più capitato niente di tutto questo, non in senso stretto, non proprio così. Solo che certe volte non sembra poi tanto diverso.

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