Venerdì ricorrerà il primo anniversario della scomparsa di Andrea Camilleri, il creatore del Commissario Montalbano, attraverso il quale ha saputo raccontare un pezzo di Sicilia, appassionando milioni di lettori.
Per la rubrica Liberi Inizi, in occasione di questo particolare evento, ecco l’incipit di Il birraio di Preston, romanzo pubblicato da Camilleri per Sellerio nel 1995, e che quindi quest’anno celebra i venticinque anni dalla prima stampa, ambientato nella seconda metà del 1800.
Si capisce, leggendo Camilleri, che il suo piacere letterario maggiore, raccontando vicende della provincia siciliana (fatti veri su cui trama e ordisce la finzione, e quindi in sé semplici se non fossero intricate dall’essere appunto siciliane), è quello di riportare il dialogo vivo. È un piacere che si comunica immediatamente al lettore, per la particolare forza comica dell’arte di Camilleri; ma assieme al piacere, poiché il linguaggio è la casa dell’essere, e con la stessa forza e immediatezza, si comunica una specie di nucleo di verità dell’essere siciliano. L’iperbole e il paradosso della battuta, cui corrispondono l’amara coscienza dell’assurdo in cui siamo e il dolore sordo per l’immutabilità di questa condizione. Camilleri inventa poco delle vicende che trasforma sulla pagina in vorticosi caroselli di persone e fatti – qui il fatto vero, conosciuto dalla celebre Inchiesta sulle condizioni della Sicilia del 1875-76, è il susseguirsi di intrighi, delitti e tumulti seguiti alla incomprensibile determinazione del prefetto di Caltanissetta, il toscano Bortuzzi, di inaugurare il teatro di Caltanissetta con una sconosciuta opera lirica, Il birraio di Preston. E anche in questo attenersi al fondo di verità storica c’è probabilmente un senso preciso: in Sicilia non serve attendere che la storia si ripeta per avere la farsa. La storia, per i siciliani, si presenta subito, al suo primo apparire, con la smorfia violenta e assurda della farsa.
Ecco l’inizio del libro
Era una notte che faceva spavento
Era una notte che faceva spavento, veramente scantusa. Il non ancora decino Gerd Hoffer, ad una truniata più scatasciante delle altre, che fece trimoliare i vetri delle finestre, si arrisbigliò con un salto, accorgendosi, nello stesso momento, che irresistibilmente gli scappava. Era storia vecchia, questa della scappatina di pipì: i medici avevano diagnosticato che il picciliddro era lento d’incascio, cioè di reni, fin dalla nascita e che quindi era naturale che si liberasse a letto. Ma il padre, l’ingegnere minerario Fridolin Hoffer, da quell’orecchio mai aveva voluto sentirci, non si dava pace d’avere messo al mondo un figlio tedesco di scarto, e quindi sosteneva che non si trattava di cure ma di kantiana educazione della volontà, per cui ogni mattina che Dio mandava in terra si metteva a ispezionare, sollevando coperta o lenzuolo a secondo di stascione, il letto del figlio e, infilata la mano inquisitoria, al subito immancabile vagnaticcio reagiva con una potente timbulata al bambino la cui guancia colpita a vista d’occhio pigliava a gonfiarsi come un muffoletto di pane ad opera di lievito di birra. Per evitare la matutina punizione paterna magari questa volta, Gerd si susì allo scuro illuminato dai lampi e principiò un’incerta camminata verso il retrè mentre il cuore gli ballava per lo scanto dei pericoli e degli agguati che quel notturno viaggio comportava: una volta una lucertola gli era acchianata su per le gambe e un’altra volta uno scrafaglio si era lasciato schiacciare dal suo piede nudo con un rumore acquoso che ancora al pensiero gli si rivotava lo stomaco.
Arrivato al cesso, arrotolata sulla pancia la camicia da notte, principiò a fare acqua. E intanto taliava, come d’abitudine, dalla finestra bassa, verso Vigàta e il suo mare, distanti da Montelusa qualche chilometro. Si emozionava se sulla lontana distesa d’acqua si addunava della debole luce di una lampàra ad acetilene di una qualche paranza spersa, allora di botto dentro la testa gli scattava come una musica, un affollarsi di sensazioni che non sapeva come dire, rare parole gli si affacciavano e sparluccicavano come stelle in un cielo nìvuro. Gli veniva la sudarella, e tornato a letto, non riusciva più a serrare occhio, si votava e si rivotava, fino a quando il lenzuolo diventava una specie di corda che l’impiccava. Da lì a qualche anno sarebbe diventato poeta e scrittore, ma ancora non lo sapeva.
In quella nottata fu diverso. Tra lampi, surruschi e truniate che insieme lo scantavano e l’affascinavano, vide un fenomeno che avanti mai aveva visto. Su Vigàta infatti stava sorgendo l’alba o qualcosa di simile, e questo non poteva assolutamente capitare, dato che suo padre, con teutonica precisione e dovizia scientifica, gli aveva spiegato come qualmente la luce del giorno nasceva dalla parte opposta, e precisamente dal finestrone della cammara da mangiare. Taliò ancora più attento, ma non c’era dubbio possibile, una mezza luna di colore rossastro copriva il cielo di Vigàta, controluce si vedevano addirittura le sagome delle case alte, quelle che stavano sul piano della Lanterna, sovrastando il paese.
Sapeva per patita esperienza quanto fosse pericoloso arrisbigliare suo padre nel bel mezzo di una dormitìna, ma decise che questa volta l’occasione meritava. Perché i casi erano due: o il mondo, stufatosi di girare sempre nello stesso senso, aveva cangiato rotta (e la supposizione, essendo nato poeta e scrittore gli faceva addirittura firriare la testa per l’emozione), o suo padre, una volta tanto, aveva sgarrato dalla sua infallibilità sovrana (e questa seconda supposizione, essendo nato figlio, gli faceva firriare la testa assai più della prima). Si avviò verso la cammara del padre, contento che sua madre non ci fosse, stava a Tubinga per dare adenzia alla nonna Wilhelmine, e appena trasùto, venne accolto dal devastante russare dell’ingegnere, una vestia di centoventi chili di stazza, altezza quasi metri due, capelli rossi a spazzola, baffi giganti magari essi rossi. Toccò la massa rumorosa e subito ritrasse la mano come se si fosse abbruciato.
«Eh?» fece suo padre con gli occhi immediatamente sbarracati, dato che aveva il sonno lèggio.
«Vater» mormorò Gerd.
«Was ist denn? Che c’è?» spiò l’ingegnere strofinando un fiammifero e accendendo il lume sul comodino.
«C’è che questa notte fa luce da Vigàta».
«Luce? Quale luce? Alba di mattino?».
«Sì, vater».
Senza dire altra parola, l’ingegnere fece ’nzinga al figlio di avvicinarsi e appena questi gli venne a tiro gli mollò una solenne timbulata.
Il caruso variò, si portò una mano alla guancia, ma s’incarognì. Ripeté ostinato:
«Sissignore, vater, fa alba di mattino a Vigàta».
«Fai subito in kamera tua!» ordinò l’ingegnere che mai si sarebbe mostrato, levandosi dal letto, in camicia da notte agli occhi che supponeva innocenti del figlio.
Gerd ubbidì. Qualcosa di strano dev’esserci, pensava l’ingegnere mentre indossava la veste da camera e si recava nel retrè. Gli bastò e superchiò una sola occhiata per rendersi conto che altro che alba, a Vigàta era scoppiato un incendio, e grosso assai. A tendere bene l’orecchio, si sentiva magari la campana di una chiesa che suonava alla disperata.
«Mein Gott!» fece l’ingegnere quasi senza fiato. Poi, trattenendo a stento urla e vociate di gioia, di purissima felicità, febbrilmente si vestì, raprì il cassetto grande dello scagno, ne trasse una grande tromba dorata munita di cordone per tenerla ad armacollo ed uscì di casa di corsa senza manco preoccuparsi di chiudere la porta alle sue spalle.
Appena in strada, diede via libera a un lungo nitrito di contentezza e poi principiò a correre. Grazie all’incendio, poteva per la prima volta sperimentare un suo ingegnoso marchingegno spegnifuoco che aveva in mente di far brevettare e che era stato costruito su suo progetto, in lunghi mesi di appassionato lavoro fuori orario di miniera. Si trattava di un largo carretto senza sponde, sulla cui piattaforma era stato inchiavardato uno spesso lastrone di ferro. Su questo lastrone era saldamente avvitato una sorta di gigantesco alambicco di rame collegato ad un altro alambicco assai più piccolo e sotto il quale uno scomparto in ferro, aperto in alto, faceva da caldaia. L’alambicco piccolo, pieno d’acqua e con il fuoco acceso sotto, produceva, secondo la folgorante scoperta di Papin, la pressione necessaria a far uscire con forza l’acqua fredda contenuta nell’alambicco più grande. Agganciato al grosso carretto ce n’era uno di proporzioni ridotte che portava legna da ardere e due scale a pioli innestabili l’una nell’altra. Il tutto era trainato da quattro cavalli; la squadra dei volontari spegnifuoco era composta da sei persone che si assistimavano all’impiedi ai lati del carretto grande. L’ingegnere aveva il suo posto allato a quello del cocchiere. Nel corso degli allenamenti e delle prove, l’apparecchio aveva sempre dato buona riuscita.
Arrivato al principio della strata che tagliava a metà il quartiere una volta arabo del Ràbato, dove ora abitavano minatori e zolfatari, Fridolin Hoffer pigliò fiato e suonò un altissimo squillo di tromba. Si fece tutta la via, ch’era lunga, sentendosi dolere il petto capace per la forza con la quale soffiava nella tromba e, arrivato alla fine della strata, fece un rapido dietro front e ripigliò in salita a suonare.
Gli effetti di quella notturna sonata furono quasi immediati. Gli uomini della squadra, che erano stati preavvertiti del significato di un’improvvisa sveglia notturna a botta di tromba, principiarono a vestirsi di prescia, dopo aver rassicurato mogli e figli tremanti e piangenti. Poi uno corse ad aprire il magazzino dove stava la macchina, il cocchiere provvide ad impaiare la quatriglia di cavalli, un terzo e un quarto addrumarono il fuoco sotto l’alambicco piccolo.
Gli altri abitanti del popoloso quartiere, ignari di tutto ma debitamente terrorizzati da quel suono di tromba che pareva quella del Giudizio, barricarono per il sì e per il no porte e finestre, in un subisso di urla, grida, voci, pianti, preghiere, giaculatorie, santioni. La novantatreenne signora Nunziata Lo Monaco, arrisbigliata all’improvviso, si susì a mezzo del letto, si fece rapidamente convinta opinione che fossero tornati i moti del quarantotto, attisò, ricadde all’indietro rigida come un manico di scopa e di subito attanata. I parenti, all’alba, la trovarono morta e ne diedero colpa al cuore e all’età, non certo al do sovracuto del tedesco.
La squadra intanto, ultimati i preliminari, si era tutta stretta attorno all’ingegnere; erano agitati e commossi per la grande occasione che s’apprisintava. L’ingegnere li taliò occhi negli occhi, uno a uno, poi isò un braccio e diede il via. In un vìdiri e svìdiri montarono e partirono a redini stese verso Vigàta. Hoffer, dalla tromba che teneva ad armacollo, ogni tanto lanciava uno squillo, forse per avvertire qualche coniglio o qualche cane che si trovava a passare e non certo un cristiano, perché a quell’ora di notte e con quel malotempo, cristiani in giro non se ne vedevano.
Magari per Gerd, rimasto solo in casa, fu nottata stramma. Quando sentì suo padre uscire, si susì da letto, andò a serrare la porta di casa, addrumò tutti i lumi uno dopo l’altro fino a fare una grande luminaria. Poi si assistimò in piedi davanti allo specchio della cammara di sua madre (l’ingegnere e sua moglie dormivano in stanze separate, e questo era lo scandalo del paese, non era certo cosa cristiana, ma del resto di che religione fossero il todisco e la todisca non si riusciva a capire), si levò la camicia da notte e, rimasto nudo, pigliò a taliarsi. Poi andò nello studio paterno, agguantò dallo scrittoio un righello, tornò davanti allo specchio che era uno di quelli che ci si poteva vedere dai piedi alla testa. Pigliata la cosa che aveva tra le gambe (minchia? pesce? cazzo? uccello? pisello?), la stese lungo il righello. La misurazione, ripetuta più volte, risultò sempre insoddisfacente, malgrado avesse tirato la pelle sino a farsi male. Posò il righello e, sconsolato, tornò a coricarsi. Serrati gli occhi, cominciò a rivolgere una lunga e circostanziata preghiera a Dio perché glielo facesse, con adeguato miracolo, diventare come quello del suo compagno di banco Sarino Guastella che era alto quanto lui, pesava come lui, ma inspiegabilmente ce l’aveva quattro volte più lungo e più grosso di lui.
Arrivati al piano Lanterna, sotto il quale si estendeva Vigàta, l’ingegnere e i suoi uomini si resero conto, preoccupati, che quell’incendio non era cosa da giocarci, almeno due grossi edifici erano in fiamme. Mentre stavano a taliare, e l’ingegnere studiava da quale parte scendere coll’apparecchio per più lestamente attaccare il fuoco, videro, alla luce traballante dovuta alle fiamme, un uomo che camminava con aria assorta, anche se di tanto in tanto sbandava. Aveva i vestiti bruciacchiati e i capelli dritti in testa, non si capiva se per spavento o per pettinatura. Le mani le teneva alte sopra il capo, come se volesse arrendersi. Lo fermarono. E dovettero chiamarlo due volte perché alla prima l’uomo parse non averli manco sentiti.
«Kosa essere successo?» spiò l’ingegnere.
«Dove?» spiò a sua volta l’uomo con fare gentile.
«Kome dofe? A Figàta, kosa essere successo?».
«A Vigàta?».
«Sì» fecero tutti in una specie di coro.
«Pare che ci sia un incendio» disse l’uomo taliando verso il paese in basso quasi a ottenere conferma.
«Ma kome è stato? Lei sa?».
L’uomo calò le braccia, se le mise darrè la schiena, si taliò la punta delle scarpe.
«Non lo sapete?».
«No. Nessuno kvi sa».
«Ah. Pare che la soprano a un certo punto stonò».
E detto questo si rimise in cammino, ripigliando la posizione di mani in alto.
«Che minchia è la soprano?» spiò Tano Alletto, il cocchiere.
«È una tonna ke kanta» spiegò Hoffer scuotendosi dallo stupore.