Liberi Inizi: “L’incanto del Pesce Luna” di Ade Zeno

È l’ultimo romanzo di Ade Zeno, ed è stato inserito tra i cinque finalisti del prestigioso Premio Campiello: si tratta de L’incanto del Pesce Luna, edito da Bollati Boringhieri, prptagonista dell’appuntamento di questa settimana con la rubrica Liberi Inizi.

Gonzalo fa un mestiere insolito. Impiegato come cerimoniere presso la Società per la Cremazione di una grande città, si occupa di organizzare e presiedere funerali laici nella Sala del Commiato dell’antico Cimitero Monumentale. Nel corso dei dodici anni passati al Tempio Crematorio gestisce con passione e professionalità migliaia di riti funebri. E sposato con Gloria, conosciuta fra i banchi universitari, e ha una figlia, l’adoratissima Inés, che all’età di otto anni cade in uno stato di coma profondo a causa di una misteriosa malattia. Confinato fra le mura di una stanza d’ospedale, il destino di Inés è appeso a un filo. Tra padre e figlia si instaura un dialogo silenzioso, fatto di presenza e di musiche ascoltate insieme. Tra queste, le canzoni e il tip tap di Gene Kelly, l’unico in grado di indurre sulle palpebre di Inés quello che sembra un accenno di vitalità. La speranza, sempre più labile, di trovare una cura in grado di svegliarla, un giorno viene inaspettatamente riaccesa da Malaguti, uomo equivoco e affascinante che propone a Gonzalo di lavorare per lui, o meglio per la sua anziana padrona. In cambio della promessa di ricoverare Inés in una clinica esclusiva, Gonzalo abbandona la vecchia occupazione per passare alle dipendenze della Signorina Marisòl. Capostipite di una potente famiglia, la donna vive in una grande villa in collina, senza mai uscire dalla sua camera da letto. Il suo aspetto è quello di una nonnina decrepita, ma una volta alla settimana la sua natura mostruosa le impone di divorare carne umana. Ormai troppo debole per procacciarsi cibo da sola, ha bisogno di un assistente in grado di cercare e condurre da lei le vittime sacrificali. L’impresa non è semplice, gli ostacoli sono molti, e Gonzalo dovrà fare i conti non soltanto con il desiderio di salvare la figlia, ma anche con il bisogno di redimersi. E sarà proprio l’anziana Marisòl ad aprirgli gli occhi, insinuando il dubbio che anche lui sia un mostro come lei, come tanti, e come tutti illuso che i semi della mostruosità dimorino sempre altrove.

Ecco l’inizio del libro.

Il Bambino Rana non parla da quasi un’ora. Ha il respiro pesante, forse si è pisciato addosso. Troppo tardi per tornare indietro, sceglierlo è stato un errore. Dopo si sentirà in colpa, e non vuole che capiti. Lui è l’ultimo, cerca di imporsi ogni volta. D’ora in poi soltanto anziani, adulti, al massimo adolescenti. I ragazzini no. La Signorina dovrà farsene una ragione.
Alla fine, però, ci ricade come un fesso.
Ha trovato le maschere nel solito emporio del cinese che ride sempre e non fa domande. Questa l’hanno usata per una pellicola anni Settanta, ha detto allungando la testa molle di un pesce palla. Roba da collezione, ma a te faccio prezzo di favore. Strizzata d’occhio, sa bene che i soldi sono l’ultimo dei problemi: con le risorse a disposizione potrebbe comprare ai pupilli costumi degni di un colossal. Come se bastasse un travestimento idiota per cancellare la vergogna di esistere.
Il Pesce Palla sorveglia Gonzalo attraverso una coppia di buchi senza fondo che nascondono un commercialista deluso. Anche lui, come quasi tutti i suoi compari, si aspettava altro: una schiera di vergini moldave, ad esempio. O due gemelle siamesi dalla pelle ambrata. Nel meno imprevedibile dei casi giovani studentesse universitarie con le rate in scadenza. Invece adesso gli tocca disgustarsi davanti a questo corpicino vizzo e verdognolo. Esamina con sospetto il Bambino Rana. Che si tratti di un nano?, pare interrogarsi. Ma preferisce evitare questioni e tace.
Il più bello, comunque, è l’elefante. La proboscide in lattice scende fino al mento penzolando, mentre le orecchie svolazzano su e giù, due enormi frittelle slabbrate. Da piccolo aveva anche lui una maschera simile, con cui si divertiva a spaventare la nonna. Le sbucava da dietro in un balzo gridando «Dumbo!», oppure «Banzai!», e lei si metteva a piangere.
Dumbo in questo caso è un tornitore sordomuto che va matto per le orge in costume. Se si esclude qualche iniziale difficoltà di comunicazione (si spiega solo con la lingua dei segni, intervallando i gesti a brevi frasi scritte a penna) non c’è voluto molto per convincerlo.
Sguaina il taccuino dalla tasca del gilet. Appunta qualcosa, strappa un foglietto, glielo porge.
Io ci sto lo stesso, recita un corsivo sgangherato.
L’Uomo Scimmia non sembra altrettanto morbido e abbaia:
Se non si sveglia entro dieci minuti me ne vado! Passi l’età, ma di aspettare ancora non se ne parla.
Di lui sa poco, il poco che basta. Cinquant’anni, due figlie, militanza da volontario nelle parrocchie di quartiere, e un mutuo a tasso fisso sulla villetta prefabbricata che non gli impedisce di regalarsi qualche vizio proibito. La materia prima, salvo rare eccezioni, bisogna cercarla lì, tra le schiere anonime di borghesi piccoli piccoli che usano il borotalco al posto del sapone.
Sta per ribattere che non è il caso di preoccuparsi, ormai ci siamo, tutto si può dire della vecchia tranne che non sia puntuale. Proprio in quel momento la Signorina Marisòl spalanca gli occhi e sputa sul cuscino.
Sono passati secoli dalla prima volta, ancora non ci ha fatto l’abitudine. Malgrado la corazza e i peli sullo stomaco cresciuti durante i dodici anni al suo servizio, continua a sentire i brividi dell’inquietudine. Non prima, né dopo, ma durante gli attimi in cui lei si approssima al risveglio, sì. Il suono delle mandibole che iniziano a cigolare, la frizione degli incisivi, lo sciacquio della lingua che pregusta il sapore di carne fresca. In quei momenti i polmoni si prosciugano mentre lunghe scosse elettriche solleticano le ginocchia.
Allora, senza farsi vedere dagli altri, lui muove un passo indietro, poi un altro, e raggiunge il mobiletto del giradischi. Posiziona la puntina sul vinile già inserito, aziona l’interruttore, aspetta che il piatto acquisti velocità. Non le ha mai chiesto perché voglia sentire sempre la stessa canzone. Probabilmente ha a che fare con qualcosa di antico, magari la sua infanzia o un amore mai dimenticato. In ogni caso per l’ennesima volta è costretto a sorbirsi i gorgheggi di Charles Trenet che modula allegramente Il pleut dans ma chambre. A partire da ora il suo compito sarà quello di attendere le ultime note per poi far ripartire tutto daccapo. Quindici, venti, trenta volte, a seconda.
Staccherà la spina solo quando lei avrà finito.
Dopo un primo moto di stupore i quattro – anzi i tre: il Bambino Rana ha altro a cui pensare – sembrano quasi divertiti. Guarda un po’ cosa ci tocca ascoltare. Una patetica canzonetta zeppa di fruscii e parole incomprensibili.
La voce sbarazzina del cantante fantasma non si lascia intimidire. Piove nella mia stanza, dice. Ascolto la pioggia, dolce pioggia di settembre che cade sul letto. Rabbrividiscono i giardini, i fiori piangono la fine dell’estate, ma la pioggia canticchia sopra un ritmo allegro… Tip et tap, et tip et top et tip, et tip et tap et tip top tap… Demain le jour fleurira sur vos lèvres…
Ormai la sa a memoria, basterebbero due note per distinguerla in una bolgia di frastuoni.
Ma il divertimento dura niente, la vecchia comincia a sussultare.
Cosa succede?, dice il Pesce Palla. È normale che faccia così?
Gonzalo non risponde, il momento delle parole termina qui.
L’Uomo Scimmia sgancia il bottone della camicia all’altezza della gola, non riesce a respirare.
La vecchia sta male. Non sarà mica pericolosa?
Mentre Trenet sguazza nella seconda strofa, Dumbo scuote la testa facendo oscillare il naso deforme.
Meglio chiamare un dottore, vibra la voce del pesce. Qualcuno ha un telefono?
Gonzalo lotta contro la tentazione di ridergli in faccia. Un telefono? Pensi sul serio di poterne uscire fuori grazie a un telefono?
Spegni questa cazzo di musica, la vecchia ha cambiato colore!, annaspa lo scimmione cercando nell’ombra.
Il Bambino Rana lascia scivolare la schiena lungo una parete, piega le gambe, si accovaccia pietrificato.
Basta, me ne vado!, grida un’ultima volta la scimmia mentre la proboscide del vicino sbatte qui e là in preda al panico.
Il pleut dans ma chambre… il pleut dans mon cœur… douce pluie de septembre chante un air moqueur…
La porta è blindata, non riuscirebbero a forzarla neanche con un mortaio, figurarsi a mani nude.
La Signorina Marisòl si mette a sedere sul bordo del materasso. Malgrado i millenni che porta con sé ha ancora qualcosa di attraente. Certo una bellezza singolare, non è la prima cosa che balza all’occhio. La si intravede appena, uno sprizzo lontanissimo. Ma è sicuro che da giovane dev’essere stata una donna dal fascino mozzafiato.
Non appena lo vede sorride contenta.
Eccoti, finalmente, amoreggia con gli occhi. Poi rimbocca le maniche della camicia da notte. Dalle estremità della bocca colano due rigagnoli di saliva mescolata a sangue. Deve essersi ferita le gengive smandibolando sui molari, più tardi spetterà a lui il compito di medicarle.
Esita ancora prima di scendere dal letto, si accarezza uno zigomo per allontanare gli ultimi rimasugli di sonno.
Quello che succede dopo è esattamente come se l’era figurato, una partitura già scritta.
Il Pesce Palla che corre in direzione della porta e attacca a tirare pugni.
L’Uomo Scimmia che afferra due sedie Luigi XIV brandendole neanche fossero spade.
L’elefante che si accascia a terra, tramortito.
Ma il primo a cadere, naturalmente, è il Bambino Rana.