Liberi Inizi: “Il lato fresco del cuscino” di Vittorio Zucconi

Era il 25 maggio di un anno fa, quando ci lasciava Vittorio Zucconi. Riportare sinteticamente la biografia, con i ruoli ricoperti durante la sua carriera di giornalista, e di scrittore, sarebbe forse riduttivo. Zucconi ha rappresentato e rappresenta tutt’ora una delle più alte penne degli ultimi decenni.

Ed è per questo che abbiamo deciso di dedicare l’appuntamento odierno di Liberi Inizi al suo ultimo libro Il lato fresco del cuscino – Alla ricerca delle cose perdute, edito da Feltrinelli ad Aprile del 2018.

Le nostre vite sono segnate da oggetti che restano impressi nella memoria, come a scandirla con visioni e suoni che sembrano rimasti lì, a fissarci per sempre. Vittorio Zucconi affronta questo viaggio nel ricordo e ricuce i momenti di una vita popolata da personaggi straordinari. Così anche gli oggetti si animano e animano la scrittura: ci sono il ticchettio della Lettera 22 paterna a cadenzare le insonnie infantili e il videoregistratore Betamax, frutto dimenticato di anonimi ingegneri della Sony, per sfuggire alla noia asfissiante dei plumbei inverni sovietici. Ci sono i dibattiti metafisici sulla piadina perfetta di Milano Marittima e l’aereo scalcagnato della campagna presidenziale di Bush, che sembrava a ogni momento sul punto di schiantarsi ma offriva in cambio un posto in prima fila nello spettacolo della democrazia. E poi c’è l’ossessione ricorrente, la ricerca “illusoria e passeggera” per eccellenza, quella del lato fresco del cuscino. E può essere un ricordo di bambino – le vacanze in Romagna, l’afa dell’Adriatico e i letti intrisi di sudore – o l’alba della liberazione di Kuwait City, mentre in un albergo rovente di Dammam si cercava solo di dormire per non pensare alla “madre di tutte le guerre”. Un viaggio nella memoria, una ricerca archeologica che diventa il romanzo di una vita, con quel poco di nostalgia che tutti ci possiamo concedere, ma qui ammaestrata dall’ironia del giornalista di razza.

Ecco l’incipit del libro.

Un giorno chiamo Carlo al telefono e gli dico: “Mi è tornata la voglia di scrivere un libro”.
Era ora, mi risponde lui. Su che cosa?
“Sulle cose.”
Quali cose?
Ascoltami. Le cose, le cose, insomma gli oggetti, la radiolina, la prima auto, il primo computer portatile, il motorino Velosolex, i miei cani che pure non sono certamente cose, sai, che hanno fatto la mia vita e l’hanno resa un poco più bella. Tutti scrivono della mamma, del primo amore, della paura, della tristezza, della morte, delle gioie, tutti rigurgitano saggi su dove va il mondo che neppure loro sanno dove vada, ma io vorrei fare un’autobiografia delle cose che raccontano la nostra vita. Che ci aiutano a vivere.
Ci fu una pausa di silenzio, all’altro capo del telefono, come se Carlo si stesse chiedendo se avessi perso la ragione, ma avevo in serbo la proposta che non si può rifiutare.
E non voglio neanche essere pagato.
“Mi sembra una bellissima idea, dai che la facciamo.”
Bellissima l’idea di non essere pagato?
“Ma no, l’idea del libro.”
Firmammo il contratto e Carlo insistette anche perché accettassi un modesto anticipo che probabilmente sprecherà, perché questo libro non venderà niente. Chi vuole pagare per leggere storie di cose qualsiasi, senza sesso, sangue, rivelazioni, politica, denunce, scandali, gossip, odio, tutte spaventosamente normali?
Se avevo improvvisamente deciso, dopo una dozzina di libri e molti anni di astinenza e di nausea, di rimettermi a scrivere, era perché mi ero improvvisamente ricordato di qualche cosa che proprio Carlo mi aveva detto in passato, che si dovrebbero scrivere soltanto i libri che si hanno voglia di scrivere.
La voglia era tornata compiendo uno di quei riti che a una certa età si fanno, quando i figli se ne sono fortunatamente andati – fortunatamente per loro – e si ruzzola con la moglie dentro una casa diventata troppo grande, come un paio di biglie dentro una scatola di latta. Il rito delle pulizie e dello sgombero.
Nel mettere le mani nei detriti di una vita, nel decidere che cosa dare al robivecchi e che cosa tenere, mi ero reso conto di quanta parte abbiano avuto le cose. Di quanto avessero segnato i momenti, le lune, lo scorrere del tempo e di come anche loro avessero assunto un’anima, che era poi la mia.
Anche i ricordi delle persone più amate, quelli che appassiscono negli anni, erano legati a oggetti, che me le facevano rivivere. Il nonno è lontanissimo nel tempo, ma il sapore della focaccina croccante con i ciccioli di prosciutto che mi portava per farsi voler bene è ancora in bocca. L’Unione Sovietica non esiste più da decenni, ma il Vcr, il videoregistratore che aiutava mia moglie Alisa e Chiara e Guido piccolini a sopravvivere alle notti di Mosca era ancora vivo e pronto a far girare quelle cassette che si erano ammucchiate nella polvere. E non posso mangiare un wafer, biscottino friabile che ho sempre aborrito, senza tornare nella piazza di Kuwait City a sgranocchiarne uno per fame, ascoltando il tonfo delle cannonate vicinissime nell’ultimo duello fra carri americani e iracheni, accanto a Oriana Fallaci.
C’era in me, come capita agli esseri umani quando sentono che la vita si accorcia e il domani è sempre meno garantito, quel sentimento che si chiama depressione. Era scattato la sera del martedì 8 novembre 2016, quando, attorno alla mezzanotte, era apparso inevitabile che un uomo inverosimile chiamato Donald Trump era riuscito a diventare presidente degli Stati Uniti e con lui tutto il peggio che da sempre dorme nel ventre di una nazione era affiorato e aveva affermato, con pieno diritto, il desiderio di invertire il movimento della storia e di lanciare l’ultimo urrà, l’ultima carica di un’America rancorosa, cattiva e sconfitta.
Fui assalito da un pensiero angoscioso: forse non avrei vissuto abbastanza per vederlo passare, come avevo visto passare altri, forse non avrei avuto il tempo per vedere l’America, nella quale avevo scelto di vivere e di trapiantare la mia famiglia, risollevarsi.
Restavano, per scuotermi dalla depressione, le cose, il ricordo di quegli umili oggetti che avrebbero potuto raccontarmi del tempo più bello, della speranza, delle illusioni. E non conoscendo altra terapia antidepressiva che non fosse lo scrivere, scrissi.
Scrivo, quindi sono. Riempio pagine e pagine di ricordi che si fanno ogni giorno più nebbiosi e inafferrabili, aggrappato alle cose che ancora mi parlano e mi raccontano la loro vita, che poi è la mia. Del sonno che tarda a venire, nel caldo di un cuscino arroventato, ma sorretto dalla speranza che dall’altra parte del guanciale ci sia sempre un lato più fresco. Sul quale finalmente appoggiare le fronte sudata e dormire.
Che faccio, Carlo, scrivo?
Scrivi.
Scrivo.

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