Playboy chiude, Viva Playboy

Ognuno è playboy. Tutti ci provano, alcuni ci riescono, altri no. 
Gianni Agnelli

È evidente che (in questa frase attribuita) l’avvocato si riferisse ad altro e non al giornale, ma in un certo senso in quel pensiero – in quel “altri no” – risiede la magnificenza di una testata che ha fatto parlare di sé, ha raccolto tentativi di imitazione da far invidia a La settimana enigmistica e ha cambiato il corso della storia culturale e giornalistica. Forse non del mondo intero, ma quella del mondo occidentale sì.

La notizia della chiusura di Playboy viene accolta in Italia da una certa freddezza e superficialità. Certo, il periodo che stiamo attraversando a livello globale ci impone di mantenere alta l’attenzione su altri temi, ma liquidare la notizia (come ha fatto praticamente tutta l’opinione pubblica) titolando: Playboy chiude in bellezza, col nudo di Pamela Anderson significa non voler vedere (non sapere?) cosa ha rappresentato quel giornale per quasi settanta anni. Significa ignorare la grande storia letteraria e giornalistica di una delle più rivoluzionarie testate mondiali prima e degli Stati Uniti poi.

La notizia
Il concetto in poche, semplici, parole è semplicemente questo: Playboy ha annunciato la chiusura della rivista a causa delle conseguenze del Coronavirus, che stanno minando tantissimi prodotti e marchi in giro per il mondo. Quindi diremo addio al giornale fisico mentre rimarrà viva  e forse ampliata la versione web della testata. Ma in realtà questa chiusura significa tanto altro.

Tre cose che forse in pochi sanno su Playboy.

  • Hugh Hefner fondò Playboy per vendetta. Nel 1951 si vide rifiutare un aumento da Esquire, testata con cui collaborava, e decise di mollare il lavoro per aprire un giornale tutto suo.
  • Playboy nacque così nel 1953 grazie a una raccolta fondi di 8 mila dollari messi a disposizione da 45 diffeenti investitori tra cui compariva anche la mamma di Hefner. Lei nello specifico ne donò mille, risultando il maggior contribuente.
  • La prima intervista comparsa sulla rivista fu realizzata con il jazzista Miles Davis.

Ed è  proprio su quest’ultimo punto che voglio soffermarmi. L’intervista a Davis.
Playboy è stato precursore. Ed è stato arte e nudo.
Playboy è stato sesso patinato, stile e lusso.
Playboy è stato il punto dove tutti a un certo punto volevano arrivare, ed era bello anche solo sognarlo.
Playboy è stato tutto questo, ma in tanti (troppi) si dimenticano che quel giornale è stato anche Cultura. Con la C maiuscola. L’elenco degli scrittori e dei giornalisti che hanno scritto su quelle pagine è pazzesco. Nomi che si sono affermati nel tempo o che erano già noti e che hanno contribuito a tessere la storia culturale degli Stati Uniti d’America fornendo mensilmente un prodotto infinitamente pop, capace di attirare trasversalmente ogni americano. Quel pop che solo al di là dell’Atlantico si può trovare. Quel pop che può affiancare nel giro di poche pagine un paio di tette e un premio Nobel per la pace senza scadere in polemiche, false retoriche e cattivo gusto
Volete qualche esempio? 

David Foster Wallace.
Silenzio.
Dieci minuti di pausa.
Fatto? Prego continuate a leggere.

A metà anni 90 la sua prima pubblicazione su un magazine fu proprio su Playboy con il racconto My appearance (in italiano La mia apparizione) che fu poi inserito nella raccolta La ragazza dai capelli strani. Margaret Atwood firmò diverse storie per Playboy. La più nota fu The Bog Man (del 1991) pubblicata in Italia pubblicata nel 1997. Anche Haruki Murakami fa parte di questo elenco e scrisse The Second Bakery Attack che fu pubblicata per la prima volta nel 1992 su Playboy. Un articolo a parte meriterebbe il rapporto tra la rivista e Stephen King che ha scritto per Hefner più di una storia. L’esordio avvenne nel 1985, con il racconto Il word processor degli dei. Più recenti Willa e Mute, usciti nel 2006 e nel 2007. Il più recente lavoro risale al 2016 con il titolo The Music Room. Che hanno in comune Ray Bradbury e Hugh Hefner? Per entrambi il 1953 fu un anno fondamentale. Mentre per il secondo andava in stampa per la prima volta Playboy per il primo era l’anno di pubblicazione di Fahrenheit 451 che nell’anno successivo fu pubblicato a puntate proprio su PB. Jack Kerouac pubblicò nel 1959 un prequel di Sulla strada, dal titolo Before the Road. Un suo ulteriore inedito, Good Blonde, uscì nel 1965. Roald Dahl basò il suo unico romanzo per adulti My Uncle Oswald su una storia chiamata The Visitor uscita anni prima su Playboy mentre Ian Fleming adattò a feuilleton di tre puntate Agente 007 al servizio segreto di Sua Maestà. Infine Gabriel Garcia Marquez nel 1971 scrisse The Handsomest Drowned Man in the World, la storia di un cadavere talmente bello da riuscire ad affascinare le persone del villaggio in cui viene ritrovato. L’elenco potrebbe continuare ancora con Hunter S. Thompson, Chuck Palahniuk, Michael Crichton, John Irving, Doris Lessing, Kurt Vonnegut e chissà quanti me ne sto dimenticando. 

Il giornalismo
Playboy non è stato solo fiction e foto. È stato anche un vettore di idee e novità. Un luogo di dibattito e discussione. L’attività giornalistica della rivista – almeno fino a tutti gli anni Novanta – è a manuale di giornalismo. Nel gennaio del 1964 sulle pagine di Playboy Alvin Toffler intervista Nabokov, ma è solo il principio di quello che sarebbe successo negli anni.  A metà anni Ottanta un trentenne Steve Jobs parla di Mac e rivoluzioni digitali da iniziare. Facendo un salto indietro nel passato di circa due decadi, nel 1965 Martin Luther King (che l’anno prima aveva vinto il Nobel) parla attraverso quelle pagine a milioni di americani. 

Stati Uniti d’America. È il novembre del 1953. Il mondo è avvolto dalla guerra fredda e nelle edicole USA arriva Playboy. In pochi giorni vende più copie di quanto il suo fondatore avrebbe pensato di vendere in un intero anno. Pensava, in realtà, che non ci sarebbe stato un secondo numero. In America si dà la caccia ai comunisti, ci sono rigide leggi contro la pornografia e il substrato della controcultura deve ancora attecchire.
Inizio anni ’50. Rosa Parks deve ancora rifiutare di alzarsi dal suo sedile e un signore laureato in psicologia e congedato dall’esercito litiga con il suo datore di lavoro e decide di aprire una rivista solo sua. Il suo gioco. Quel visionario signore si chiama Hugh Hefner. La rivista si chiamerà Palyboy. Tutto il resto è storia. Una gran bella Storia.