Il lusso di interpretare. Benvenuti nel Paradiso Italia

Un fotografo italiano decide di dar voce ai migranti che vivono clandestinamente nel nostro Paese. Si accampa con loro, raccoglie le loro storie, fotografa la loro quotidianità, nel tentativo di scavare più a fondo nel cuore del tema “immigrazione”. Questo fotografo è Mirko Orlando che scattando immagini alternandole al linguaggio dei fumetti è riuscito a dare vita a uno dei più profondi reportage letti ultimamente sul tema dell’immigrazione. La discussione inizia chiacchierando del suo Paradiso Italia, per poi aprirsi, inevitabilmente, davanti a tante altre questioni.
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Mirko, puoi scattare una fotografia dell’immigrazione clandestina, oggi, in Italia?
L’immigrazione clandestina, proprio perché “irregolare”, è chiaramente un problema, ma è un problema difficile da risolvere se non sfatiamo alcune false credenze in modo da inquadrarlo per ciò che esso è realmente. Anzitutto non c’è alcuna “invasione”, perché la percentuale di stranieri (comunitari e non) presenti in Italia è circa l’8,7% della popolazione. Chiaramente il problema non riguarda gli stranieri, ma i clandestini che sono sempre troppi, quindi chiudiamo i porti e tanto basta. Purtroppo la stragrande maggioranza degli stranieri irregolarmente presenti sul territorio italiano arriva via aereo, con un regolare visto turistico scaduto il quale diventano clandestini, per cui dai porti neanche ci passano. Evidentemente chiudere gli aeroporti sembrava troppo, e del resto dovresti chiuderli in uscita piuttosto che in entrata, perché il vero problema di questo paese non è l’immigrazione clandestina, ma la regolare emigrazione dei giovani (e meno giovani) che vanno all’estero in cerca di quelle opportunità professionali che ormai l’Italia non offre più. Tuttavia, anche leggendo il fenomeno con maggiore obiettività, e soprattutto con dati statistici alla mano, non si arriva al nocciolo della questione, perché il vero problema non è l’immigrazione clandestina, ma la sua stessa narrazione.

A proposito di narrazione. La sensazione è che si racconti soltanto la punta di un iceberg e non uno spaventosamente grande sommerso…
I periodi di decadenza, politica, culturale e sociale, sono sempre preceduti da un progressivo decadimento del linguaggio che confondendo il significato delle parole inabissa il pensiero critico. Quando ogni intellettuale diventa un radical chic, una ONG una banda di trafficanti, e un fascista più semplicemente una persona post-ideologica, le cose si fanno troppo confuse per poter essere davvero analizzate con cognizione di causa. Aggiungi poi lo stupido sensazionalismo di alcuni giornali o emittenti televisive, che anziché fornire informazioni precise, dettagliate e verificate, diffondono quelle che una volta avremmo chiamato balle ma che oggi preferiamo indicare come post-verità, e capisci che in Italia l’unica fotografia dell’immigrazione clandestina che puoi scattare è una fotografia sfocata.

In apertura scrivi delle tue personalissime Istruzioni per la lettura. Dici che è tutto vero seppur con qualche precauzione e che la verità è un lusso che non tutti possono permettersi. A parte un ragionamento su questo punto ti chiedo se nelle situazioni in cui ti sei trovato si percepisca un forte bisogno di normalità perché anche (forse soprattutto) la normalità in certe situazioni diventa un lusso.
La verità è un lusso che non tutti possono permettersi perché viviamo in un mondo dove se scappi dalla guerra va bene, poverino, dobbiamo aiutarti, ma se scappi dalla fame sono cazzi tuoi. Perché va bene aiutare le donne e i bambini, ci mancherebbe altro, ma gli uomini neanche per sogno, e una volta fatti 18 anni tanti auguri… sei solo e con qualche diritto in meno. In queste circostanze è chiaro che un immigrato, pur di ottenere i documenti, dichiara il falso riguardo la sua età o la sua provenienza. Purtroppo anche la nostra sensibilità è mossa da stereotipi, per cui se non somigli palesemente alla vittima per come siamo soliti immaginarcela, diventi immediatamente il carnefice. Questo per quanto riguarda la verità… la normalità, invece, non so cosa sia. Volendo intenderla come bisogno di quotidianità, è evidente quanto rappresenti un lusso per persone che sono costrette a vivere in clandestinità, in baracche fatiscenti, e in condizioni che farebbero incazzare anche Mahatma Gandhi, e infatti si incazzano, e talvolta, quando lo fanno, è proprio per tentare di ripristinare quella quotidianità perduta. Tanto per fare un esempio, quando ho frequentato i centri di accoglienza mi ha stupito molto l’insoddisfazione di alcuni ospiti riguardo la qualità del cibo o la comodità dei letti. Mi sono detto: “Ma come? Fino a ieri eri in Libia, con un fucile puntato alla testa, la prigione dietro e un mare troppo mosso davanti, e ora ti lamenti perché la pasta è scotta?”. Come vedi anche la mia sensibilità è spesso mossa da stereotipi. Mi ci è voluto un po’ per capire che simili lamentele rappresentavano per loro un irrinunciabile desiderio di “normalità”.

Mi racconti il tuo metodo di lavoro che vede fondersi foto e fumetto? Come nasce questo stile? Quanto è importante per chi disegna una accurata documentazione fotografica? Penso a Joe Sacco che in Palestina fotografava tutto per poi disegnarlo…
Sembra quasi che tu abbia trovato una sintesi tra i due stili.
In linea di massima interpreto i linguaggi, pur nella loro specificità, senza alcun fanatismo. Disegno, scrittura e fotografia, per me sono semplici mezzi, strumenti che uso per raccontare la realtà che mi circonda evitando qualsiasi forma di autoreferenzialismo. In un certo senso credo che non esistano belle fotografie o brutte fotografie, o bei disegni e disegni brutti, ma solo fotografie e disegni utili e disegni e fotografie inutili… è questo che intendo quando dico che non mi interessa la forma in sé (e neppure il linguaggio) ma il suo contenuto. Dopodiché ogni strumento veicola qualcosa riguardo il suo modo di operare, e perciò è fondamentale disporne tenendo conto della sua specificità. Il disegno, ad esempio, ti permette di sconfinare nei territori del grottesco, o di trasformare in immagine un pensiero astratto. Poi nella forma del fumetto ti aiuta a dilatare la narrazione, aggirando quella che in un reportage fotografico è inevitabilmente un’esposizione parcellizzata (c’è sempre un vuoto incolmabile tra un fotogramma è l’altro, e checché ne dicano i fotografi, una fotografia mostra molto ma non spiega niente). D’altra parte la fotografia ti costringe ad intessere relazioni molto profonde con i soggetti che intendi fotografare. Nel mio lavoro ci sono molti ritratti proprio per questo: non tanto perché un volto, o uno sguardo, porti inciso una storia intera, ma perché per arrivare a fotografarlo ti sei dovuto guadagnare la sua fiducia… non è che prendi, miri, scatti e scappi via. Non è questo il mio modo di lavorare. C’è poi un altro aspetto: se sfogli il libro avrai la sensazione di essere osservato dai soggetti, stanno lì e ti guardano. Sono proprio i loro occhi, e in qualche modo ti ci relazioni in modalità che al disegno sono precluse.

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C’è – tra le tante situazioni che hai incontrato – una storia particolare che ti ha colpito e a cui hai ripensato con maggiore frequenza a lavoro terminato?
Alla fine sono sempre le storie peggiori, o le più assurde, quelle che ricordiamo con maggior frequenza. Ancora oggi non smette di lasciarmi interdetto la storia di un giovane ragazzo comunista, nato in un paese di migranti che odia gli immigrati, che crescendo si converte al nazionalismo di destra diventando il segretario di un partito indipendentista. Credimi è una storia vera, lo giuro! Detta così suona strana ma devi sapere che il ragazzo ha scoperto d’amare il suo paese perché costretto a proteggerlo non solo dall’Africa, ma anche e soprattutto dall’Unione Europea che però non vuole abbandonare, ma cambiare dall’interno restandone fuori… visto che non si è mai presentato alle riunioni indette per cambiarla. È andata proprio così lo giuro! Comunque se ti sembra illogico è un problema tuo, perché di fatto il ragazzo è forte di un solido consenso elettorale.

Ti chiedo una tua definizione di graphic journalism.
Per me è un modo come un altro di fare giornalismo, perciò di raccontare la realtà del mio tempo. Il punto è: cosa intendiamo per giornalismo? A seguire i dibattiti si ha l’impressione che lo stato di salute del giornalismo italiano – piuttosto cagionevole – dipenda in maniera quasi esclusiva dalla capacità di fornire informazioni obiettive e precise. È vero che oggi circolano più falsità strillate che informazioni prudentemente espresse, ed è vero che non può esistere un buon giornalismo approssimativo, tuttavia credo si possa parlare di un discreto giornalismo partigiano. Il compito di chi fornisce le notizie dovrebbe essere quello di diffondere una più attenta e corretta informazione, ma quando parliamo di corretta informazione non ci possiamo limitare, come spesso accade, ad accennare ad un astratto concetto di obiettività senza porre mai l’accento sul carattere intenzionale, e perciò immediatamente ideologico, dell’informare, e pertanto non dovremmo ridurre l’intera deontologia professionale al goffo tentativo di tenersi saldi al mero dato reale evitando ogni forma di interpretazione. Il fatto stesso che io mi preoccupi di raccontare la vita di chi vive ai margini della nostra società (siano immigrati, prostitute, barboni, tossicodipendenti, etc.) definisce già una chiave di lettura. Ho scelto di raccontare il mio tempo da quel punto di vista e non da un altro. È una scelta. Alla fine è di una forma di ideologia che stiamo parlando. Personalmente credo che un buon reporter debba dirmi, oltre a ciò che accade nel mondo, in che modo guardare ciò che mostra, cioè suggerire una via interpretativa che sia chiara, aperta, e mai dogmatica. Soltanto in questo modo il giornalismo può contribuire a cambiare il mondo senza limitarsi a doverlo raccontare da una distanza cautelare. Del resto nessuno teme i “fatti”, o la “realtà dei fatti” (se pure ci accordassimo sul senso da attribuire al termine “realtà”), ma le idee con le quali li interpretiamo, perciò giocare ad essere al di “sopra delle parti” è soltanto un altro modo per rendersi innocui. Fortunatamente da noi il graphic journalism non è ancora preso del tutto sul serio ed è un bene perché subiamo meno pressioni dei colleghi giornalisti. A noi ci lasciano perdere. A noi ci concedono le libertà dei folli… a noi ci concedono il lusso d’interpretare.