“ Nella storia i conquistatori si sono sempre comportati allo stesso modo con i conquistati. Hanno bisogno di crederci inferiori per giustificare il modo in cui ci trattano: se solo si rendessero conto che siamo tutti uguali…”
M. C. Corasanti
Le prime quindici pagine di questo libro sono le più dolorose e strazianti che io abbia mai letto, e il pensiero che siano quotidianità casuali e oltremodo possibili in quella terra senza pace, la Palestina, apre una voragine di sofferenza e angoscia che difficilmente si può esprimere.
Un romanzo su come il modo di pensare possa rendere liberi o prigionieri. Non parlo solo di libertà fisica ma di quella di pensiero, che quando consiste in una certa levatura, dove la rabbia e i dogmi non arrivano, anche a discapito della vita, è lì che abita una libertà che difficilmente ci può essere portata via. Per levatura di pensiero non mi riferisco alla mera erudizione, opportunità rara in quelle terre dimenticate da dio dove mai come lì viene invocato e appellato, ma quel pensiero che come scrive l’autrice è coraggio, un coraggio che non è assenza di paura ma di egoismo, per mettere il bene di qualcun altro prima del proprio.
Ichmad e Abbas devono diventare adulti prima ancora di poter essere bambini dopo che Baba, il padre, viene incarcerato ingiustamente, e la famiglia numerosa va vestita e nutrita in qualche modo.
Ichmad ha un sogno, un sogno che per noi è sì una scelta ma prima di tutto una possibilità garantita, normale, facile, che mai come oggi è così priva di valori e investimenti: studiare e andare all’università. Ichmad ama la matematica e la fisica e anche i calcoli più proibitivi per lui sono giochi da fare a mente, con una semplicità disarmante.
Abbas invece pensa che studiare sia una perdita di tempo, sopratutto in un paese dove nulla sembra cambiare mai, sotto i costanti bombardamenti e atrocità perpetrate verso il loro popolo, Abbas crede che difficilmente si possa udire una voce che come unica arma ha il dialogo. Un’arma potente, che per poter imbracciare però, bisogna avere il dono del coraggio e dell’umanità. Abbas come unica soluzione vede la guerra e l’unica possibilità il combattere per cambiare il loro mondo.
Quando Ichmad vince alcuni concorsi che lo portano a frequentare l’università, inizia anche un tremendo silenzio tra i due fratelli, divergenze che un giorno lontano, smetteranno di essere motivo di incomunicabilità fra di loro. Il talento di Ichmad lo avvicina e rende tangibile il suo sogno, ma essere un arabo in una scuola formata prettamente da ebrei ha le sue astrusità e complessità, e di certo il rapporto e le ostilità che si creano con il suo insegnante Sharon ne sono un emblema, così come la dimostrazione che dando un’opportunità di incontro e di dialogo porterà questi due personaggi a vincere un premio e condividere insieme, nonostante in patria rappresentino un nemico reciproco, il successo meritato. Un successo non solo accademico per il loro indiscusso talento ma anche umano per essere andati oltre un conflitto, oltre una storia sanguinosa che ancora oggi continua a dividere e a uccidere, per aver creduto nel dialogo, nella conoscenza, nello studio e nell’umanità, per aver condiviso un sogno e usato l’unica vera arma di un uomo: l’amore!
Questo libro ci lascia in eredità insegnamenti universali, dove le opposizioni di pensiero faranno sempre da padrone. Ichmad e suo padre che credono che son lo studio e la comunicazione si possa cambiare il mondo, così come Abbas e la madre vedono nel conflitto, nel sacrificio, e nella lotta l’unica soluzione a un mondo che non sa e spesso non vuole ascoltare.
Credo che l’incontro avvenga quando comprendiamo che le idee che ognuno ha non sono né universali né applicabili a tutti, che i concetti di libertà e verità vadano approfonditi a livello personale ma che quando arriviamo alla totalità, all’assoluto, al globale, non sono solo concetti che muoiono di aporia ma sono nozioni in costante cambiamento, costruzione e mutazione. Come dice la citazione all’inizio dobbiamo smettere di sottomettere e credere inferiori chi e altro da noi, per potergli inculcare dogmi, religioni, pensieri che debbono per forza essere universali. La bellezza sta nella contaminazione, nella diversità ma sopratutto nel suo incontro, quel incontro che nella divergenza sperimenta l’unica fede che l’uomo debba perseguire: l’umano che è in noi.
Non bisogna mai dimenticare così come non bisogna mai smettere di sperare e nella speranza creare un futuro giusto per i nostri bambini. Cito ancora la scrittrice: “Non puoi tornare indietro e cambiare ciò che è stato, ma adesso puoi iniziare a cambiare le cose per decidere il finale.”
Dio solo sà, o qualsiasi divinità che senza sosta continuiamo a invocare in questo mondo dilaniato, quanto attuale e necessaria sia questa frase, quanto l’attesa di un qualsivoglia dio interventista ci faccia sfuggire quotidianamente la bellezza che ci circonda e quanto ci faccia perdere di vista la potenza di un’azione concreta intrisa di amore.
Concludo con la battuta di un film che mi accompagna sempre, lasciando però perpetuamente uno spiraglio aperto sull’ultima parole:
“Gli spari intorno a noi c’impediscono di udire ma la voce umana è diversa dagli altri suoni e può essere udita al di sopra dei rumori che la seppelliscono, persino quando non grida, persino se è solo un bisbiglio. Il più lieve bisbiglio può essere udito al di sopra degli eserciti quando dice la verità.”
The interpreter
Libro: Come il vento tra i mandorli
Autore: Michelle Cohen Corasanti