Scrivere di un’opera magistrale è già un’impresa non da poco, tirarne in ballo due, con la pretesa di farle in qualche modo confluire già nel titolo, può sembrare un’idea folle. Probabilmente lo è, ma rileggere Cecità oggi, lascia il sapore della sconfitta, quell’insostenibile leggerezza del “Einmal ist Keinmal” di Kundera, nell’opera di Saramago riecheggia invece l’ineluttabilità del destino in quel “Es muss sein! dell’ultimo quartetto di Beethoven, un fardello imposto da quel fato che intima la cecità agli abitanti di un luogo indefinito e in un tempo che non si sa.
Il mio incontro con i libri di Saramago è stato come darsi appuntamento all’autoscontro dei luna park. Le parole fluiscono senza sosta, le virgole che frenano di colpo frasi interminabili sbattono contro le maiuscole di nuovi improvvisi inizi, discorsi che non conoscono virgolette e interazioni dei personaggi ai quali il lettore deve dare i tempi giusti. Lo smarrimento più totale mi ha lasciata senza fiato per almeno le prime cinquanta pagine, poi lo scontro con il genio letterario di José è stato inevitabile. L’armonia sopraggiunge quando la punteggiatura scompare e quando il buon senso e l’ordine impostoci dalle regole di scrittura ci abbandonano, lasciando spazio a una nuova capacità di lettura, alla scoperta del diverso che diventa non solo innovazione ma necessità, quell’abbandono delle regole alla scoperta di nuovi territori e possibilità, dove l’analisi e la critica alla società viene fatta infrangendone le regole, soverchiando secoli di imposizioni che non ammettevano sbavature.
Seppur il romanzo di Kundera titola con riferimento alla leggerezza, in realtà parla sopratutto di vincoli: la fitta maglia di oppressioni pubbliche e private nelle quali ci destreggiamo quotidianamente, con tutto il loro peso che esercitano su ogni rapporto umano. Dall’altro una cecità bianca, che suona più come una rivelazione che una eclissi, un’illuminazione per destarci da quell’oscura cecità nella quale viviamo pur vedendo.
Il concetto di tempo è presente in entrambe le opere così come la presa di coscienza e la necessità di crescere, accogliendo quindi quella pesantezza che ne deriva. Nell’opera di Kundera il tempo o viene visto sotto la leggera forma del tutto scorre Eracliteo e dove il tempo consuma ogni cosa, compresa la condizione di cecità Saramaghiana, un tempo dove la leggerezza sta nel tutto che avviene una sola volta, dove non esistono banchi di prova, dove la vita è una sola e l’impossibilità di sperimentare qualsiasi cosa ci alleggerisce del fatto che non possiamo sapere se abbiamo fatto o meno la scelta giusta o se abbiamo fatto bene o male ad assecondare il nostro sentire, quindi è come se il tutto avvolto in questa definizione di tempo non sia quasi mai accaduto, oppure il tempo come quell’eterno ritorno Nietzschiano, dove ogni cosa ha la pesantezza dell’eterno ripetersi, del riflusso dell’identico, senza possibilità di cambiamenti o modifiche che diventa terrificante. Se però intendiamo “l’eterno ritorno” come una reiterazione di ritmi, di disegni, di arabeschi del destino che lasciano spazio ad infinite piccole varianti nelle rifiniture, dove gesti o eventi non escludono alternative migliori o peggiori, allora l’immutabilità di ogni gesto si alleggerisce.
La cecità di Saramago è come un terrificante eterno ritornare dove dobbiamo lasciare spazio a quelle infinite piccole varianti che portano con sé la pesantezza delle alternative, che implicano una crescita, quel “Es muss sein! imposto dal destino sotto forma di eventi accidentalmente necessari, che si parli degli incontri di Kundera o della cecità di Saramago, sovviene l’obbligo di legare l’esistenza a una necessità dandole un senso, una pesantezza seppur non intesa sotto forma di eternità.
Il paradosso dell’esistenza è la sua finitezza e in Cecità si evidenzia come davanti alla morte la razionalità e la ragione scompaiano, così come in Kundera la pesantezza di una vita eterna colma di senso ci induce a ricercarne la leggerezza.
La denuncia sociale di Saramago ci pone davanti alla insostenibile leggerezza Kunderiana, dove i rapporti con gli altri ci impongono la necessità della pesantezza, alternata alla levità della finitezza. La cecità come evento imposto ma passeggero, e la pesantezza insostenibile del dare un senso agli eventi come se fossero una condizione eterna.
I rapporti umani avvolti nelle loro difficolta di tempi ed eventi diversi, gli uni reali, altri fantascientifici, da una parte vedenti che barcollano del buio delle relazioni umane, gli altri che seppur ciechi, riescono a vedere finalmente la vera natura che ci fa diventare ora carnefici ora vittime. Una cecità che pur non vedendo vede, e una leggerezza che seppur preferibile non può non alternarsi con la pesantezza, quella di un senso, purché non venga proiettato su una visione eterna, insostenibile per l’uomo, considerando che anche gli dèi ci invidiavano la nostra inevitabile fine.
Intricati viaggi nella natura umana, nei suoi sentimenti, nelle sue atrocità, dove il comune denominatore sono i fragili rapporti che legano le nostre vite, nelle quali in nome dell’eterno perdiamo l’attimo, ma dove un attimo seppur perituro non può giustificare un’assenza di senso.
Entrambi implicano una trasformazione che oscilla fra leggerezza e pesantezza, fra il vedere e la cecità, ognuno con il proprio peso e il proprio valore, che insieme alla necessità sono intimamente legati: solo ciò che è necessario è pesante, solo ciò che pesa ha valore. Che sia Kundera o Saramago il valore indiscusso è la vita e la nostra continua trasformazione nell’attraversarla, in continua relazione con noi stessi, per poter comprendere gli altri e, attraverso gli altri per comprendere quell’indiscusso legame che attraverso miriade di relazioni ci unisce in questa vita peritura.
Sono indubbiamente due letture che meritano di essere analizzate e approfondite, separatamente, perché il loro valore individuale è monumentale. Per quanto riguarda me, mi sono divertita a cercare di farne un piccolo puzzle, viaggiando fra i sentimenti e i valori della natura umana, tra fantascienza (mai così reale) di Cecità e le complesse relazioni amorose che nonostante secoli di letteratura e analisi, mantengono quell’aura di mistero del quale non smetteremo mai di leggere e scrivere.
Un vespaio nel quale mi sono cacciata fin dal titolo e il ronzio che mi ha provocato dentro non mi ha lasciata in pace, e non credo lo farà. Le riflessioni si sovrappongono in continuazione e per quanto a volte siano folli, vale sempre la pena tesserle.
Letture così non passano, non smettono di essere attuali, le analisi che vi troviamo permeano profondamente il pensiero e lo lasciano ancor più stipato di domande, e infatti non riesco a non ripresentare costantemente la stessa domanda: a prescindere dal mistero che avvolgerà sempre i valori, le scelte e le relazioni umane, come è possibile che letture così lontane nel tempo, con ambienti sociali così diversi, possano sopravvivere decenni, se non secoli, ed essere ancora così attuali, come è possibile che in tutto quel tempo l’unica cosa costante è quel greve eterno ritorno dell’identico?