Mi perdo fra alcune immagini che in un momento di malinconia, ritrovo in quella “libreria” fotografica del mio cellulare, satura di ricordi e vita vissuta. Ce ne sono così tanti di scatti, che diventa come una passeggiata in qualche immensa libreria o biblioteca. Le parole sono camuffate, non ci sono pagine di carta e pensieri fatti di inchiostro. Qui l’esistenza si veste dei colori di un tramonto, del vento che fa ribollire le onde del mare, della bellezza di uno sguardo o di un sorriso catturato di sfuggita, di un bicchiere vuoto su un tavolo o di un altro che si riempie più avanti, di una sedia scostata o di una trascinata più vicino al mare, di quei miei occhi che osservano attimi che inevitabilmente ho cercato di fermare nel tempo, per riguardarli ora, e passeggiando nelle rimembranze, cercare di ricordare cosa o chi, mi ha fatto desiderare di sospenderli nell’indelebile ricordo di una fotografia. Per questa foto, che accompagna l’articolo di questa settimana, mi ricordo bene, che la parola, il comune denominatore di quei scatti, era la libertà.
Parola immensa. Analizzata e discussa nei secoli, come concetto, muore di aporia prima ancora di anche solo tentare di definirla, incasellarla, darle quella dimensione di sicurezza, con confini ben delineati, l’unica dimensione nella quale l’uomo sembra poter esistere. Osservo le foto di quando questo concetto mi ha fatta riflettere più del solito, e mi ricordo le ore passate a far scivolare lo sguardo fra l’isola di Nisida a sinistra e lo spettacolo di un tramonto invernale a destra, che scende lentamente dietro a Capo Miseno e il Monte di Procida.
Pochi conoscono la leggenda di Posillipo e Nisida, del loro amore. Si racconta che un tempo un giovane bello e gentile di nome Posillipo si innamorò di Nisida, una fanciulla di campagna. Dopo anni vissuti sperando invano che lei ricambiasse il suo amore, Posillipo decise di porre fine al suo dolore gettandosi in mare. Il Fato, però, scelse un destino diverso per lui: lo trasformò nello splendido promontorio bagnato dalle acque del Golfo di Napoli. Anche la fanciulla ebbe un destino simile e dall’epilogo prodigioso: venne trasformata nel piccolo isolotto che sorge dirimpetto al promontorio di Posillipo. I due personaggi divennero due entità morfologiche distinte e separate, ma accomunati dallo stesso epilogo, destinati a restare per sempre l’uno vicino all’altra. L’istmo che separa i due è l’emblema di quell’amore che non ha mai avuto modo di esistere. L’uno però, il promontorio di Posillipo, oggi è uno dei posti più suggestivi e panoramici di Napoli, a differenza di Nisida che, probabilmente, a causa della cattiveria della fanciulla che le ha dato il nome, è stata scelta come luogo di prigionia e dimora di persone che hanno commesso reati. Oggi, sull’isolotto di Nisida ha sede l’Istituto Penale dei Minori.
L’isola da un lato e la meraviglia di un tramonto dall’altra, si guardano, si riflettono l’uno nell’altra e mi ritrovo a pensare quanto questo contrasto fra la prigionia di un’isola e la libertà di un tramonto si influenzino. Se gli errori da una parte puniti da una condanna, rendano vana la bellezza di un tramonto incandescente e quanto invece la meraviglia e il volo libero di un gabbiano sul mare, condizionino una libertà mancata, o se questa esistenza arginata sia solo un accumulatore di rabbia o disperazione, oppure con tutta la speranza possibile, fa coltivare la voglia di sognarlo un futuro pregno di possibilità, ampio come tutto quell’azzurro oltre quelle finestre, oltre i bordi di un’isola.
Se l’isola racchiude gli errori, voglio pensare che un tramonto possa rappresentare una possibilità, quotidiana, di meraviglia e di speranza. Mi sovviene la splendida poesia di John Donne, “Nessun uomo è un’isola”. Mai come in questo caso, voglio sperare, che gli errori non definiscano, né precludano il sogno del mare, di una partenza e poi di un ritorno al continente, e come la metafora usata da Donne, passare dalla solitudine di una monade rispecchiata e vissuta nell’isola, all’appartenenza di un dimensione più grande, ampia, che vibra di connessioni. Voglio pensare che scontare un errore non sia sinonimo di reclusione sociale e detenzione di un futuro che deve poter essere sognato, dove un corpo prigioniero non condanni la libertà di una mente, ma che la conduca verso la comprensione e poi verso quei tramonti futuri che sanno di unione, di terraferma, di opportunità, e di un volo che deve poter esser proiettato, visto, in quel futuro che non deve sapere di perdizione, dove siamo ancora capaci di meravigliarci davanti ai caldi colori di un “semplice” tramonto. Nel suo libro Declusione della libertà il Prof. Ferraro ci dà una splendida lezione di molti concetti qui solo sfiorati, con un lessico e una dialettica unica nel suo genere.
La mia detenzione, all’epoca ero appena uscita dalla quarantena, non è paragonabile alle esistenze che Nisida trattiene, e giammai vorrei offenderle o mancargli di rispetto con questo mio scritto, ma questo splendido panorama che mi si apre davanti, non ha permeato solo di meraviglia i miei pensieri, ancora stantii dalla quarantena. Sono ore ormai che fisso il mare, ora il profumo di salsedine è la mia prigione, che ha sgretolato le pareti che mi hanno osservato per un tempo che a me è apparso sia infinito, sia breve, più lento in alcuni momenti, in altri correva via veloce, un po’ come questa esistenza oppressa che viviamo ormai da un paio di anni. Qualcosa che sta volgendo in una pericolosa abitudine, qualcosa che non interroghiamo più, qualcosa che sta mutando e riscrivendo la storia. Sono stata un’isola, una monade, ma lo sono da così tanto, tanto quanto, il numero delle mie connessioni. Per quanto circoscritta sono cedevole, attaccabile, le mie scogliere sembrano ripide ma sono piene di appigli, i ponti di accesso sollevati e ben sorvegliati, ma le coste, infinite e frastagliate rivelano insenature meravigliose e accoglienti approdi per coloro che non navigano soltanto a vista, ma osservano, si fanno condurre dalle infinite rotte di un cielo stellato, dalle domande, dai dubbi, si ascoltano e ascoltano, vedono, non guardano e basta e coltivano le molteplici stagioni e fioriture del loro pensiero, evitando di assuefarsi al tutto, che è appartenenza, ma non sempre è sinonimo di libertà.
Mi rendo conto che circumnavigare l’idea di libertà è impossibile. Non ha rotte, dimora in mari senza fine, fluttua sulle superfici della semplicità del quotidiano esistere, ma quando si immerge negli abissi del pensiero e della riflessione umana, diventa un concetto spesso inarrivabile, ma che non dobbiamo smettere di osservare, pungolare, espandere, per darle forme che alla fine sono prettamente personali, in quella danza che ci permette di capirne i limiti, il coraggio di espanderli, le responsabilità che porta con sé, comprenderla, viverla in una dimensione che non sempre imprigiona. Quando ci fa affondare le radici nell’inferno delle sue prigioni, non possiamo che sollevare l’intensità e la qualità dei nostri pensieri, che devono tendere alla vastità che da laggiù può e deve tendere solo verso l’alto, oltre, elevandoci laddove possiamo apprendere qualcosa di nuovo su di essa, sull’agire delle sue stagioni sui giardini del nostro pensiero e di conseguenza sulle fioriture che ne deriveranno. Sta a noi piantare semi in quell’inferno delle nostre molteplici prigionie, semi che attendono l’insegnamento supremo di un pensiero che deve continuare a cercare, per portare alla luce quei fiori e il loro profumo di liberazione e di libertà.
Ritorno al presente, l’immagine è racchiusa nello schermo, eppure la salsedine che sento ancora nelle narici e sulla pelle sembra più reale che mai. Lascio libero il pensiero di libertà di quel lontano giorno, ne cerco altri per vivere intensamente il presente e poi altri ancora nell’illusoria proiezione in un divenire in costante mutamento.
Non esiste detenzione per un pensiero, diventiamo prigionieri quando smettiamo di navigare con quella libertà che solo noi amministriamo e della quale troppo spesso diventiamo secondini.
Buona lettura folks!