Ricordo ancora quando presi in mano in libro di Andre Agassi, in un pomeriggio libero e come al solito passato fra gli scafali di una libreria. Non ero amante di autobiografie, sopratutto sportive, OPEN però non ci mise molto a diventare la mia Bibbia, come uso definirlo. Il faccione del leggendario tennista in copertina, e sul retro le parole che fulminarono e elettrizzarono tutto il mio essere:
“Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta. Per quanto voglia fermarmi non ci riesco. Continuo a implorarmi di smettere e continuo a giocare, e questo divario, questo conflitto, tra ciò che voglio e ciò che effettivamente faccio mi appare l’essenza della mia vita…”
E fu amore!!! Poche parole, semplici, eppure di una potenza inaudita. Almeno lo erano per me, che da atleta, mi rispecchiavo totalmente e con tutto il mio essere, in quella essenza che Agassi racconta, quel conflitto e tutto ciò che esso comporta e contiene.
Un’icona del tennis, un personaggio controverso che seguivo da quando da piccolina imparavo a rispedire centinaia di palline oltre quella rete. Il tennis non è diventato il mio destino, lo è diventata la pallacanestro, ma l’essenza di quel divario, di quel conflitto interiore, trovarono subito riscontro e dimora in me, l’oscillare di quel mondo interiore e di quello che invece portiamo nel mondo, di quello che siamo e di quello che facciamo, quel contrasto che contiene un abisso fatto di oscurità ma anche di altezze vertiginose, dove spesso in entrambi i casi l’aria è rarefatta e imparare a respirarvi è forse la lezione più difficile da apprendere e probabilmente l’unico talento che bisogna sviluppare.
Agassi per me è stato una costante, ma quando lessi quelle parole, mi resi conto che quel conflitto poteva abitare anche una leggenda, che sentire quella lotta interna non era un bug del sistema, non era sbagliato provare quei sentimenti così estremi verso quello che sembrava essere il nostro destino. Portando alla luce tutto il suo mondo, ha liberato quel dolore che mi sentivo in colpa di provare, quei sentimenti che ritenevo blasfemi verso quella che dovevo ritenere una fortuna, quella di avere un talento, un’opportunità, una via che a molti, moltissimi altri, era preclusa.
Mentre scrivo rigiro la pallina con il suo autografo fra le mani, il suo volto in copertina mi guarda dal comodino, il suo sguardo, occhi dal color marrone chiaro che sembrano raccontare il libro prima ancora di leggerlo, ancora oggi, ispira e alleggerisce ogni mio pensiero, nella sua rilettura, un appuntamento annuale per me, ritrovo ogni volta qualcosa di nuovo, qualcosa che sottolineo e che mi era sfuggito la volta precedente, anche se non è così, semplicemente la persona che lo legge di anno in anno non è più la stessa, e ogni volta sia nelle sottolineature vecchie che in quelle “appena scoperte” trovavo nuova linfa per questa esistenza in continuo mutamento e costellata di eterni conflitti.
Sfoglio le prime pagine, prima di iniziare da quella fine con la quale inizia il libro, ecco il classico paratesto letterario o comunemente chiamato, in maniera un pò lugubre, epigrafe. Da scrittrice, l’idea di introdurre la mia opera da parole prese in prestito era quasi un gesto simbolico, era come tirare una linea che univa in qualche modo, uno scrittore a un altro, e ogni libro a un suo affine, in qualche luogo e tempo lontani. Quello che incornicia questa opera racchiude parole possenti e significati che continuano a tormentare ognuno di noi e nelle quali spesso ci ritroviamo inermi:
“Non si sa sempre riconoscere che cosa è che ti rinchiude, che ti mura vivo, che sembra sotterrarti, eppure si sentono non so quali sbarre, quali muri. Tutto ciò è fantasia, immaginazione? Non credo, e poi uno si chiede: “Mio Dio, durerà molto, durerà sempre, durerà per l’eternità?” Sai tu ciò che fa sparire questa prigione? É un affetto profondo, serio. Essere amici, essere fratelli, amare spalanca la prigione per potere sovrano, per grazia potente.”
Vincent Van Gogh
L’amore, eccolo lì quel filo rosso con il quale ho cucito tutta la mia esistenza, e che cuce assieme anche le pagine di quello che ho cercato di raccontare di me e del mio divenire, come atleta, come persona, come donna e sopratutto come essere umano.
OPEN è una pietra miliare della mia letteratura personale, è religione e fede, è prigionia e liberazione, è grazia e tormento, è fratellanza, di sportivi, di esseri umani, è esposizione di qualcosa che veniva sempre taciuto, qualcosa che a chi è destinato all’olimpo non è permesso, è rivelazione, di quell’altra faccia della gloria, di quella patina scintillante che nega allo sguardo di vederne l’altra parte, quella oscura, dove la storia si costruisce, dove tutto accade per produrre quel scintillio che è tutt’altro che solo vincente.
Il tennis a differenza della mia disciplina è uno sport solitario, ma anche lì la differenza lo fa il team. Da soli raramente arriviamo da qualche parte, e in un mondo sportivo sempre più concentrato sul singolo, sull’egoismo, la squadra, il team, con il quale decidi di circondarti, farà sempre la differenza. Quando Andre incontra Gil Reyes, trova se stesso, non solo un preparatore ma un appoggio solido per le sue debolezze, le sue insicurezze, trova un luogo dove l’essere umano incontra il suo destino e dà ad entrambi lo stesso nutrimento, perché nessuno dei due potrebbe esistere senza l’altro. Il discorso di Gil è da pelle d’oca e mi fa rimpiangere di non aver mai trovato qualcuno capace di tale umanità da anteporre sempre al risultato:
“Andre, non proverò mai a cambiarti, perché non ho mai provato a cambiare nessuno. Se fossi stato capace di cambiare qualcosa avrei cambiato me stesso. Ma so che posso darti la struttura e il progetto per ottenere quello che vuoi. C’è differenza tra un cavallo da tiro e un cavallo da corsa. Non li tratti allo stesso modo. Si parla tanto di uguaglianza ma non sono sicuro che uguale voglia dire allo stesso modo. Per quel che mi riguarda, tu sei un cavallo da corsa e ti tratterò sempre di conseguenza. Sarò severo, ma giusto. Ti guiderò senza mai spingerti. Non sono uno che esprime o articola molto bene i suoi sentimenti, ma d’ora in poi sappi questo: Ci siamo, ragazzo. Ci siamo. Sai che ti dico? Tu stai combattendo e puoi contare su di me fino all’ultimo uomo. Da qualche parte, lassù, c’è una stella con sopra il tuo nome. Forse non sarò capace di aiutarti a trovarla, ma le mie spalle sono forti e puoi salirci sopra mentre la cerchi. Hai capito? Per tutto il tempo che vuoi. Sali sulle mie spalle e allunga la mano, ragazzo. Allungala.”
E ancora: “Non ti posso promettere che non ti stancherai, ma sappi questo. Ci sono un sacco di belle cose in serbo per te al di là della stanchezza. Stancati, Andre. È lì che conoscerai te stesso. Al di là della stanchezza.”
Poesia pura, qualcosa che trascende lo sport in sé, che va oltre il mero rapporto lavorativo, un impegno nutrito dall’umano che è in noi per raggiungere il divino al quale dobbiamo anelare.
OPEN è questo e molto altro, Agassi non è solo uno sportivo vincente, è un essere umano in costante conflitto con quei demoni che abitano tutti noi e che costantemente ci mettono alla prova. Dire grazie a una leggenda come Andre, per quanto lanciata nell’etere e che probabilmente mai lo raggiungerà, è un dovere, una necessità. Il suo lascito va oltre i lustrini di uno sport d’elite, punta dritto al cuore, alle sue paure e debolezze ma anche a quella forza e a quel coraggio del quale è capace.
Grazie Andre, grazie per aver donato l’umano attraverso il divino del suo lascito, a queste esistenze fragili eppure così audaci, che continueranno ad ammirarti nei secoli a venire.
Buona lettura!