Lo stato attuale del mondo – e in effetti tutto ciò che è vivente – è ammalato. Se fossi un medico e mi venisse chiesto un consiglio, direi: Create il silenzio! Conducete gli uomini al silenzio!
Sören Kierkegaard
Una foto può essere emblematica, perché scaturisce da un certo paesaggio che l’occhio ha abbracciato e che a sua volta ha provocato un pensiero, che a sua volta ha dato vita a un’emozione, che in questo caso mi ha fatto prendere il cellulare per cercare di bloccare tutto questo processo, nel tempo. Quel tempo in cui oggi cammino a ritroso e rimembro.
Camminavo già da un po’, la solita passeggiata dopo il lavoro per sgranchire un po’ le gambe intorpidite e per rinfrescare le sinapsi. Adoro il freddo pungente del nord Europea, nonostante la troppa assenza di sole, che invece illumina il mare della mia terra anche quando la più gelida bora ne sferza le superfici. La solitudine non manca in quei luoghi e l’ampiezza degli spazi paragonata alle vite che vi dimoravano, dava quel senso di respiro, che riempie anche il più profondo angolo dei polmoni. Era una solitudine che sapeva di distanza ma non di lontananza, di un ritorno costante nonostante le partenze, quanto basta di malinconia, quella malinconia di ritrovarsi così lontani in una circostanza storica che invece richiedeva vicinanza.
Quando alzai lo sguardo uscendo dal groviglio dei miei pensieri, mi ritrovai questa immagine davanti. Non mi ricordavo nemmeno il percorso che ho fatto per giungere li, ma mi resi conto di non aver incontrato nessuno, non avevo sentito rumori, solo io e il vapore del mio fiato caldo che ritmicamente annebbiava l’aria gelida di fronte a me. Non so perché, ma mi ricordò l’immagine che vidi il giorno prima sul giornale (ahimè in versione digitale) di Piazza San Pietro, deserta, con il Papa a pregare un Dio un po’ più distratto del solito. Di certo quel campetto non poteva emulare la maestosità di un luogo così sacro e colmo di storia, e nonostante si trovasse sullo stesso meridiano la sua solitudine apparteneva a confini ben diversi. Ma il peso dell’intensità di un momento storico come questo, giunse anche in un luogo che sembrava non accorgersi che il mondo attorno, stesse implodendo, attaccato da un nemico che non potevamo vedere.
In un’immagine, racchiudevo 22 anni di vita. Un canestro, l’ennesimo luogo che non è casa e quel silenzio, quella solitudine che a volte opprime, altre volte insegna. Ho sempre ricercato il silenzio, quei momenti in cui il mondo si adorna di quiete che non fa mai lo stesso rumore. Le forme che il silenzio dà ai nostri paesaggi, ai nostri pensieri, sono così ondivaghe da non poter essere definite a volte, da questo linguaggio che si rivela così scarno quando si tratta di sbrogliare il groviglio dell’inesprimibile. Un linguaggio che mai come allora sapeva di silenzio, ma di quel silenzio che non unisce, che non provoca emozione, un silenzio che non viene usato per ascoltare, è un silenzio diverso quello che l’umano produce e che non sa di bellezza, come invece lo è il silenzio che il mondo senza umani ci regala.
Quand’è che abbiamo smesso di ascoltare? Quando è stata l’ultima volta in cui ti sei fermato ad ascoltare un tramonto, ad abitare un’alba? Quand’è che abbiamo smesso, di vedere il mondo in un granello di sabbia o il paradiso in un fiore selvatico, oppure intrappolando l’eternità del tempo in un’ora, come sublimemente Wiliam Blake ci descriveva nella sua visione della meraviglia?
Il mondo intorno a me si era fermato, fermato per davvero, nonostante lì si vivesse ancora con quella parvenza di libertà. La prigionia di un mondo succube di un nemico etereo, era così presente in questa foto, nella quale, tentavo di immortalare la sua tangibilità. Ma poi mi resi conto che non era il mondo ad essersi fermato, ma noi, quell’essere vivente che credeva che l’unico modo di vivere, fosse l’antico insegnamento, nel quale l’uomo reclamava il suo dominio sulla natura. Ma non era lei a essersi fermata, anzi, aveva appena iniziato ad esistere. Senza di noi il suo silenzio ritornava a regnare in tutta la sua sinfonia, senza l’illusorio dominio dell’uomo, della sua avidità e della sua sete di potere. La natura riprendeva il posto che da sempre le spettava di diritto, quel posto che Platone così sapientemente ci descriveva: “Non pensare, uomo meschino, che questo universo sia stata creato per te. Tu piuttosto sarai giusto se ti aggiusti all’universa armonia”. Mi ricordo ancora i colori e con quale intensità la bellezza della natura si era manifestata in quell’estate del 2020, in quel luogo che era casa e che mi aveva attesa per tutto l’inverno. L’umanità stava sperimentando la quiete in un mondo che sapeva vivere solo nel caos. Escher diceva che amiamo il caos perché ci piace produrre ordine… non so davvero a quale mondo si riferisse. Non questo immagino, non questa umanità, scevra di quell’ordine che invece nelle sue splendide stampe trovavano quell’armonia e quel metodo che donavano pura pace a chi li osservava. Una città turistica come la mia era solita brulicare in quel periodo di un’umanità che non sapeva liberarsi di quel caos, non sapeva ordinarlo laddove lo richiedeva la vita, dove fermarsi era sinonimo di angoscia e afflizione invece che di riflessione e rinascita. In quei momenti invece tutto taceva, non c’era l’essere, predominava il creato. Ed era una sensazione che ho continuato ad evocare spesso, sopratutto quando la ripartenza ci ha piombati in un’esistenza che sembra non abbia appreso molto da quei silenzi e dalle loro dinamiche.
Una foto può essere emblematica dicevo, e ne possiamo scattare una miriade se sappiamo dove, ma sopratutto, come vedere. Il mondo ha voluto farsi sentire, farsi ascoltare, siamo noi ora che dobbiamo captare nel suo silenzio la nostra più divina sinfonia, quella che da tempo, ormai immemore, abbiamo perduto. Non abbiamo più potuto abitare quei luoghi che ora ci erano preclusi e che definivano ciò che pensavamo di essere. Ora abitavamo luoghi più intimi ma non per questo meno vasti. Abitavamo quei paesaggi dell’anima sui quali mai ci siamo soffermati, sempre troppo occupati dai frenetici rumori delle nostre vite. Credevamo di poter dominare sui cieli e sui mari, su quella terra che mai come in quel momento ci ha mostrato la nostra vulnerabilità, la nostra effimera esistenza, la nostra inevitabile ciclicità, quella inutile negazione della nostra mortalità. Il mondo ci ha fermato, rivuole armonia e misura, la pretende, li ha creati in nostra assenza, un equilibrio che noi abbiamo perso nell’avida corsa di un’accumulare ciò che in realtà ci stava svuotando.
Il mondo rivuole equilibrio. E noi? Cosa abbiamo imparato da questo silenzio che ha rimbombato così profondamente in quei paesaggi interiori che siamo così poco abituati ad abitare? Saremo capaci di ricercare o di ritrovare nel ricordo di quei silenzi, una nuova o una dimenticata capacità di vedere quelle fotografie, che compongono gli scenari di quelle bellezze che i nostri occhi hanno smesso di discernere?
Metto a fuoco, vedo, sento, scatto…racchiudo in una foto una moltitudine di cose. La bilancia si riallinea in una parvenza di equilibrio… respiro, riprendo la via verso casa, alla ricerca di altri silenzi.