Agosto 2016.
Nella cerimonia di inaugurazione olimpica l’ultimo tedoforo deve essere Pelè, ma “O Rei” accusa un piccolo malore a pochi minuti dal concretizzarsi di quel momento e allora ecco il colpo di scena. Viene sostituito da Vanderlei Cordeiro de Lima che ad Atene nel 2004 fu aggredito da un tifoso e perse il treno per l’oro. Arrivò terzo e nel “qui e ora” del Maracanà si sta prendendo la sua rivincita, la sua gloria mancata. In quel momento ha il mano il fuoco sacro di olimpia e sta per compiere il gesto che sancirà il definitivo inizio delle Olimpiadi. Una rivincita, un riscatto, una seconda opportunità. Come quella che durante i giochi brasiliani venne data a una decina di atleti.
Pochi minuti prima sotto la bandiera olimpica ( i cinque cerchi su campo bianco) erano sfilati dieci atleti di nazionalità siriana, sud-sudanese, etiope e congolese. Quello era il momento in cui stava facendo il suo ingresso – per la prima volta nella storia delle olimpiadi – la squadra olimpica dei rifugiati. Un team fortemente voluto dal CIO insieme all’UNHCR: Nel 2016, la squadra di rifugiati a Rio ha catturato l’immaginazione delle persone in tutto il mondo e ha mostrato il lato umano della crisi globale dei rifugiati attraverso lo sport – Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
Anche a Tokyo ci sarà la squadra dei Rifugiati che sarà composta da 29 atleti provenienti da undici tra i Paesi più rischiosi al mondo. C’è la Siria, afflitta dal 2011 dalla guerra e dalla conseguente crisi economica. Il Sud Sudan, con quattro atleti, che ancora non ha superato le violenze della guerra civile e poi l’Afghanistan, con tre giovani atleti, un Paese ancora alle prese con un conflitto interno pluridecennale. C’è l‘Iraq, con un solo atleta e l’Iran, con cinque giovani. E ancora l’ Eritrea, il Camerun, la Repubblica Democratica del Congo, il Sudan, la Repubblica del Congo e il Venezuela, tutti Paesi afflitti da una forte instabilità interna, da dove giungono denunce di persecuzioni, arresti arbitrari e anche uccisioni. Secondo l’ultima stima dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, nel 2020 si sono contate oltre 80 milioni di persone costrette a lasciare le proprie case a causa di guerre e conflitti. Di queste, 26 milioni risiedono all’estero con lo status di rifugiato. Avere una bandiera che rappresenta 80 milioni di persone alle Olimpiadi significa andare incontro ai valori fondanti dei Giochi e al tempo stesso significa dare un significato concreto a dei numeri che senza confini rischiano di disperdersi, ma se sono a Tokyo allora esistono e se esistono allora possono essere un esempio, un riscatto, una speranza.
“Gli atleti rifugiati sono un arricchimento per tutti noi dell’intera comunità olimpica”, ha dichiarato a inizio giugno il presidente del CIO Thomas Bach. “Le ragioni per cui abbiamo creato questa squadra esistono ancora. Abbiamo più sfollati per necessità al mondo in questo momento, ed è stato quindi naturale creare una Squadra Olimpica Rifugiati CIO”.
Ecco gli atleti che vedremo in gara (e le rispettive discipline)
Abdullah Sediqi (Afghanistan) – Taekwondo (-68kg maschile)
Ahmad Baddredin Wais (Siria) – Ciclismo (strada maschile)
Ahmad Alikaj (Siria) – Judo (squadra mista maschile)
Al Obaidi (Iraq) – Lotta (-67kg greco-romana maschile)
Alaa Maso (Siria) – Nuoto (50m stile libero maschile)
Anjelina Nadai Lohalith (Sudan del Sud) – Atletica leggera (1500m femminile)
Aram Mahmoud (Siria) – Badminton (singolo maschile)
Cyrille Fagat Tchatchet II (Camerun) – Sollevamento pesi (-96kg maschile)
Dina Pouryounes Langeroudi (Iran) – Taekwondo (-49kg femminile)
Dorian Keletela (Congo) – Atletica (100m maschile)
Eldric Sella Rodriguez (Venezuela) – Boxe (-75kg maschile)
Hamoon Derafshipour (Iran) – Karate (-67kg maschile)
Jamal Abdelmaji Eisa Mohammed (Sudan) – Atletica (5000m maschile)
James Nyang Chiengjiek (Sudan del Sud) – Atletica leggera (800m maschili)
Javad Majoub (Iran) – Judo (Squadra mista maschile)
Kimia Alizadeh Zenozi (Iran) – Taekwondo (-57kg femminile)
Luna Solomon (Eritrea) – Tiro (carabina ad aria compressa 10m femminile)
Masomah Ali Zada (Afghanistan) – Ciclismo (strada femminile)
Muna Dahouk (Siria) – Judo (Squadra mista femminile)
Nigara Shaheen (Afghanistan) – Judo (Squadra mista femminile)
Paulo Amotun Lokoro (Sudan del Sud) – Atletica (5000m maschile)
Popole Misenga (DR Congo) – Judo (squadra mista maschile)
Rose Nathike Lokonyen (Sud Sudan) – Atletica (800m femminile)
Saeid Fazloula (Iran) – Canoa (500m maschile)
Sanda Aldass (Siria) – Judo (Squadra mista femminile)
Tachlowini Gabriyesos (Eritrea) – Atletica (maratona maschile)
Wael Sheub (Siria) – Karate (Kata maschile)
Wessam Salamana (Siria) – Boxe (57kg maschile)
Yusra Mardini (Siria) – Nuoto (100m farfalla femminile)
Quest’ultima, Yusra Mardini è alla sua seconda olimpiade e cinque anni fa toccò molti la sua storia. Aveva lasciato il suo paese a causa della guerra. Come migliaia di altri suoi connazionali aveva iniziato un lungo e lento processo di spostamento. Da Damasco a Beirut, poi Istanbul e Smirne da cui riuscì a trovare un passaggio per la Grecia su un barcone di fortuna. Durante la traversata il motore della barca si ruppe e lei – insieme alla sorella e a un’altra ragazza si tuffarono in mare per spingere l’imbarcazione per quasi quattro ore fino alle coste dell’isola greca di Lesbo: «Pensavo che sarebbe stata una vera vergogna se fossimo affogate, perché eravamo nuotatrici. Ho odiato il mare dopo quella volta». Mardini arrivò poi in Germania risalendo la rotta balcanica in treno e a piedi. Pochi mesi dopo si spalancò per lei la chance dei Giochi di Rio. Oggi è di nuovo qui a Tokyo e il mare che tanto odia, adesso lo guarda dal finestrino dell’areo mentre vola verso un sogno che fino a cinque anni fa sembrava totalmente irrealizzabile.