Pubblicato per la prima volta da Rizzoli nel 1949, tradotto in più lingue, I superflui negli anni ’50 diventa un bestseller negli Stati Uniti, vende quasi un milione di copie, pubblicato da Scribner, lo stesso editore di Hemingway.
I superflui è un libro spietato, in cui le illusioni svaniscono in un destino che non si può modificare, perché intrinseco in ciascuna persona.
La seconda guerra mondiale è finita, le campagne si vanno vuotando, perché troppo misero il reddito agricolo, specialmente per mezzadri e lavoratori occasionali, dirà Walter Pedullà nel raccontare la narrativa italiana del secondo dopoguerra.
Dante Arfelli – l’autore – nasce a Bertinoro da famiglia contadina, dopo pochi anni si trasferisce a Reggio Emilia, poi si sposta a Cesenatico. La sua storia è la storia di un’Italia agricola che sale su un treno per raggiungere la città. Ed è proprio così che inizia I superflui, su un treno. Luca è in viaggio verso Roma, abbandona la provincia, come nella realtà fanno molti giovani scrittori amici di Dante Arfelli in quegli anni, i quali approdano nella capitale sperando di frequentare gli ambienti giusti e così instradare la propria carriera. Roma lo accoglie, la guerra è finita da poco, le linee dei tram e le passeggiate a piedi nei quartieri vicini alla stazione fanno da sfondo ad un racconto solitario e al tempo stesso corale. Ogni superfluo assomiglia a tutti i superflui. Ogni passatosi assomiglia. Ogni generazione si assomiglia, ogni notte si assomiglia.
A 100 anni dalla nascita di Dante Arfelli, 5 marzo 1921, torna in libreria il suo libro d’esordio, uno dei più clamorosi casi letterari dell’Italia del dopoguerra.
Luca ha in tasca solo due lettere di raccomandazione di altrettanti compaesani, il parroco e il segretario della sezione socialista , con le quali spera di trovare lavoro. Appena scende dal treno incontra Lidia, una prostituta che lo trascina nella pensione della “vecchia”, una vedova indigente quanto e più di loro, dove la ragazza alloggia ed esercita. Inizia così la questua del giovane, che rimbalzato tra notabili e uomini di chiesa, alla fine un lavoro, seppur precario, lo ottiene. Eppure l’inadeguatezza non lo abbandona; così come non abbandona Lidia, né Luigi, l’anarchico militante, o Alberto, lo studente di Legge. Davanti a quegli sguardi si staglia l’orizzonte del possibile, che però non viene loro mai concesso davvero. Una cricca di sconfitti, irrimediabilmente figli dei loro anni eppure così vicini ai nostri giorni, che guardano il mondo scorrergli di fronte, a volte immaginano di poterlo afferrare, e invece solo ciondolano in avanti, persi e insieme intrappolati.
I Superflui è un caso letterario, questa la sua storia: a decretarne il successo furono nel 1949 Aldo Palazzeschi, Pietro Pancrazi e gli altri giurati del Premio Venezia (precursore del Campiello) che definirono la storia raccontata nei Superflui «amara, cruda, aspra, anche disperata se dal fondo della sua chiusa tristezza non si levasse una tiepida luce di umana simpatia». Vince il Premio Venezia. Arriva l’edizione americana a decretarne la consacrazione: “Ho avuto l’edizione americana dei Superflui. Ne sono contento… l’editore Scribner di New York è buono: lo stesso di Hemingway”, scrive Arfelli. È il 1951. Quasi un milione di copie vendute. Titolo, The Unwanted.
«Mi aspettavo una bella edizione (avevo visto il libro di Hemingway dello stesso editore) ma ha superato la mia aspettativa. È una edizione in tela rossa, carta ottima, stampa pure, con sovra copertina con un disegno bello, insomma una edizione di lusso. […] Be’, ogni tanto una soddisfazione. Ce ne dà così poche questo mestiere». “Arfelli si è dimostrato abilissimo impegnandosi a fondo in una storia di gente sconfitta in partenza… ciò che avvince il lettore e rende tollerabile la tristezza del libro è la virilità del lamento”, scrive, sul New Yorker, AnthonyWest, figlio di Rebecca West e di H. G. Wells, uno dei critici letterari più autorevoli del tempo.
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L’ESTRATTO
“Luca si fermò all’uscita della stazione. Posò la valigia ai piedi di una delle tante colonne che reggevano la grandiosa costruzione; l’ora non era ancora tarda e la gente andava e veniva. Ogni tanto una macchina si fermava di colpo davanti a lui, rasente al marciapiede. Poco più oltre, in mezzo al vasto piazzale, alcuni tram andavano e partivano continuamente; di fronte, in profondità, una enorme massa scura e tutt’intorno palazzi ingombri di scritte luminose. Alcune di queste scritte si accendevano e si spegnevano continuamente, altre correvano per il muro; in varie direzioni si aprivano le vie che i tram infilavano col loro rumore di ferri tormentati. Luca si ricordò dei ladri dai quali gli avevano detto di guardarsi e prese la valigia in mano. Quella era la città. La guardava con un senso di spaesamento e sentiva venire meno la fiducia che l’aveva sorretto fino ad allora, fin quasi all’arrivo in stazione. Già il fermarsi in stazione, quel colpo all’indietro che dà il treno che frena, quello spalancarsi simultaneo di tutti gli sportelli, gli avevano dato una gelida impressione di definitivo, di irreparabile, di distacco da tutto quello che era prima. In quel sobbalzo all’indietro era come se qualcosa gli si fosse staccato dal cuore che si era trovato vuoto e freddo d’un tratto; forse era il paese, che fino ad allora aveva continuato a stargli dentro, cullato dal treno, che gli si era staccato, pensiero divenuto inutile e ingombrante sotto la pensilina della stazione. Ma questa era la città. Prima, al pensarla, sembrava più facile da affrontarsi, ma adesso era un essere immenso che lo premeva da tutti i lati, lo spingeva, gli gridava di muoversi, con la voce irosa di un facchino, con il clacson di un’automobile, con lo scampanellio di un tram. In cento modi gridava, in cento modi lo incalzava. Era la città che lui stesso si era scelta. Ma proprio lui se l’era scelta? Pensandoci bene, no”.