«Aprite l’otturatore e il mondo, sotto forma di luce, si riverserà nella macchina fotografica.»
Sulle fotografie di David Campany (Einaudi, Torino 2020) non è un saggio, o almeno non è solo un saggio sulla fotografia come fenomeno, come medium sociale o estetico né solo un saggio sulla fotografia da un punto di vista storico. Campany sceglie un approccio diverso e interroga, di volta in volta, le singole fotografie, spingendoci a fare lo stesso. Il suo libro è ibrido come lo sono le immagini che contiene, che variano dalle fotografie più classiche e note (tra cui le fotografie più antiche pervenuteci), a immagini che probabilmente, a prima vista, neppure definiremmo fotografiche. Fotografie di testi, di opere d’arte altrui, photopath, collage o foto realizzate non con una macchina fotografica ma con carta fotosensibile. I testi affiancano le immagini non per guidare la visione (per questo Campany propone percorsi diversi nella lettura, per esempio tralasciando il testo) ma per raccontarci delle vite inaspettate che hanno vissuto certe fotografie, imprevedibili per i loro stessi autori e diventate perfino il contrario di quello che ci si augurava.
«Sulle fotografie non può spiegare le varie immagini che presenta, sebbene racconti come possano eludere una spiegazione e tener vivo il nostro interesse. In questo senso, è un libro che riguarda non tanto cosa pensiamo delle fotografie quanto come pensiamo a esse; e non tanto le intenzioni dei fotografi quanto cosa capita quando guardiamo.»
In un certo senso il libro di Campany è un processo alle intenzioni, alla pretesa autorialità che soprattutto nella fotografia si mostra vana. «La fotografia fa mistero dell’intenzione.» Non possiamo sapere cosa volesse fissare il fotografo. E in fondo non ci interessa. Oppure ci interessa, ma non ci dice nulla di più della foto che guardiamo. Il nome dell’autore e il suo intento, «possono essere le meno avvincenti delle informazioni». Uno scatto può trovare un’altra intenzione, un altro autore, un altro punto di vista. È nella natura delle immagini essere imprevedibili e ambigue.
Campany sottolinea con quanta facilità un’immagine possa oscillare tra arte e documento, tra scienza, estetica, pubblicità commerciale e testimonianza sociale. Questa oscillazione è insita in ogni immagine. «Non c’è mai stato nulla di puro nella fotografia. Prende a prestito da tutte le altre arti. […] La fotografia è uno spazio di scivolamento e prestito.» Nessun’immagine è una registrazione definitiva. Non solo in sé, ma anche nella sua relazione con il mondo la fotografia è elusiva. Da un lato l’immagine è inseparabile dall’aspetto del mondo che ferma, ma non sono la stessa cosa. «La fotografia trasforma il mondo che sembra servire.» Ma la relazione non è data una volta per tutte, non è qualcosa di stabilito per sempre. Questo perché la fotografia ha una natura trasformativa; la creazione di immagini coinvolge la luce, la vista, la percezione, la dimensione, la superficie, il colore, il tempo, il movimento… e uno scatto fotografico è sempre anche una meditazione su tutti questi elementi, oltre che su se stesso. «Qualunque cosa documentino, le fotografie documentano anche la propria creazione. La macchina fotografica sta sempre registrando la sua stessa condizione.»