I fratelli Karamazov: lo spettro delle emozioni umane che trascende i secoli

Anche solo pensare di scrivere di Dostoevskij farebbe tremare anche i più esperti delle sue opere, figuriamoci quando non si è né letterati pluri-laureati, né famosi critici letterari, così come nemmeno personaggi di decennali esperienze fra giornalismo e i svariati ruoli che offre il mondo dell’editoria.

Eppure non riesco a pensare di non scriverne, come potrei non far uscire quel fiume di scoperta che sono per me diventati i classici, quella letteratura che chiunque sia un lettore, si sente in dovere di leggere. Quella parola, dovere, l’ho evitata in tutti questi decenni che mi hanno separata dal fatidico momento in cui, finalmente, la curiosità che avvolge questi mondi lontani, ha fatto finalmente capolino nel mio tempo, un tempo che sapevo sarebbe arrivato e che mi avrebbe trovata pronta ad affrontare la storia e la sua forza, una forza capace di trascendere i secoli, in attesa del mio desiderio. Non volevo leggerli solo per poter dire di averli letti, volevo che la potenza della loro prosa mi trascinasse nella loro epoca.

Ovviamente ho iniziato da loro, dai famosi, o famigerati, fratelli Karamazov. La quantità delle tematiche esposte in questa opera e travolgente e sconvolgente. Se ne è scritto per secoli, i critici e letterati che si sono succeduti nel tempo ne hanno proposto varie interpretazioni, scomponendo al microscopio tutti i fili, che un autore come Dostoevskij, ha sapientemente saputo intessere nelle sue opere.

Se c’è una cosa che trascina il lettore in quel vortice che sono le trame dei sui libri, è la semplice complessità che Fëdor mette nei suoi personaggi e vi riversa tutto il caleidoscopio delle emozioni umane. Ogni protagonista è un mondo a sé, è un romanzo per se stesso quasi, non si percepisce la trama come un’interazione di svariati individui quanto l’eterna lotta di ogni personaggio con se stesso, quella lotta interiore che sia contro i propri vizi, contro i propri dogmi o convinzioni, che sia contro il proprio orgoglio o contro quella fragilità alla quale in fondo, nessuno pu sfuggire, e che non è l’opposto della forza, come dico sempre, semmai la sua essenza.

Gli eroi di questo romanzo fanno capolino fin dalla prima pagina, stimolando subito le nostre simpatie o repulsioni. Eppure man mano che andiamo avanti non possiamo soffermarci solo sul bianco o sul nero, ma scopriamo che ognuno di loro sarà capace di immergerci nelle più svariate tonalità dell’animo umano, in quel conflitto che non ha eguali quando il nostro avversario, è l’immagine che ci rimanda lo specchio.

Cerchiamo sempre qualcuno fra le pagine con cui parteggiare, per il quale sperare o nel quale riconoscerci, qualcuno che non sconvolga troppo le nostre convinzioni o che avvalori o giustifichi indirettamente i pensieri e le azioni che muovono le nostre esistenze. Dostoevskij non solo non ci permette di crogiolarci nei nostri giardini personali, ma li manda all’aria, li scompagina a tal punto da obbligarci a fare i conti con noi stessi attraverso i suoi turbolenti personaggi.

Cosa dire della figura del padre, Fëdor Pavlovič, che viene subito data in pasto a quelle aree di noi stessi dove teniamo ben conservato il disappunto e l’odio. Di certo è tutto tranne che un padre, uno dei tanti insomma, che lo sono per puro proseguimento della specie, ma non hanno nulla a che vedere con quel ruolo, così fondamentale nella vita di un/a figlio/a. Ci sono singole frasi che anche da sole possono valere un’intera opera, e una di quelle l’autore la usa per racchiudere in poche parole, l’essenza di questo ruolo: “… chi ha procreato non è ancora un padre, un padre è chi ha procreato e se n’è mostrato degno.” Eccola qui la bravura e tutta la capacità di uno scrittore. Una sola frase, un universo.

Quando si arriva ai fratelli Karamazov lo scombussolamento è totale. Non c’è una nuance delle loro personalità che non scateni in me gli opposti, che non sconquassi le mie percezioni, che non metta in dubbio quello che sapevo del mondo, ma anche e sopratutto di me stessa. Sembra non esserci nessuna influenza esterna sui personaggi, le loro lotte sono così personali e così interiori che quasi non si sfiorano in quella trama incalzante.

C’è Dmitrij, il maggiore, nonché figlio di primo letto di quel padre debosciato e irresponsabile, costantemente travolto dalle pulsioni, quasi fosse un animale che risponde solo agli istinti primordiali. Sragiona in ogni sua azione, solo per dopo prostrarsi in quei mea culpa tardivi, che non possono giustificare un’assenza di conoscenza e quindi di controllo delle proprie emozioni e di conseguenza delle azioni che ne conseguono. Finirà per subirne le ripercussioni a un prezzo molto caro, infinitamente più alto di quello che avrebbe speso investendo nell’apprendere l’arte del controllare le proprie emozioni, emozioni che per sono state private di quell’educazione e quella base di partenza di un genitore inavveduto e incosciente.

Poi c’è Ivan, il figlio di mezzo, apparentemente compito, controllato, eppure non da meno in collisione con i suoi demoni. Insieme al fratello più piccolo Aleksej, entrambi figli del secondo matrimonio del padre, ci trascina in quella Russia dal cristianesimo in costante lotta, una lotta che separa anche i due fratelli, l’uno, Ivan, nell’incessante desiderio di capire, dall’animo dilaniato dalle vicende del mondo, di quel Dio che permette le più atroci sofferenze, torture indicibili che non risparmia nemmeno ai bambini, dei quali Ivan racconta e si domanda. Attanagliato dalle disperazioni del mondo e dell’umano, dice per , che forse non esiste una disperazione così grande da annientare quella sua fame di vita, che lui definisce frenetica e forse indecente.

Ed ecco che nello sconforto del fratello maggiore si interpone la ferma fede del minore, Aleša, che seppur vacillando riesce a non spezzare completamente quella sua visone dell’eterno e di una vita che si protende anche oltre il tempo che ci e dato di esistere, con tutte le sue follie e incongruenze, contro tutta l’illogicità dell’essere umano, e di quella religione che non trova sempre appigli concreti nella storia. E quando Ivan dice che vuole vivere a dispetto di ogni logica e seppur non sia disposto a credere all’ordine delle cose egli ha care le foglioline appiccicose che si schiudono a primavera, ha caro il cielo azzurro o qualcuno a cui vuole bene, e quando infine interroga il fratello chiedendogli: “Amare la vita più del senso che ha?”, ecco che egli gli risponde con quella fede così insita in lui: “Sí, senza dubbio, amarla prima della logica, come dici tu, assolutamente prima della logica, perché solo poi se ne capirà il senso. E questo che mi passa per la testa da un po’. Metà del lavoro è già fatto e messo da parte, Ivan: tu ami la vita. Ora devi occuparti dell’altra metà e sarai salvo.”

Nel Libro V, e anche qui come non ripensare a Omero, ed esattamente come Odisseo, ecco che l’autore fa raccontare da Ivan, il suo poema, lo scritto più prodigioso e sconcertante di tutta l’opera, o addirittura di tutta la letteratura: Il grande inquisitore. Esattamente come l’eroe omerico, queste pagine sono per me il vero protagonista, e fanno esplodere, nonché imprimono nella storia, tutta la potenza letteraria di Dostoevskij. Non sono soltanto di una lucidità disarmante, ma anche brillanti, tanto che è impossibile non sentirne tutta la capacità di fede dell’essere umano, come anche quella dissennata cecità che accompagnata dall’ignoranza trascina il popolo a una vita di miseria intellettuale, ma sopra ogni cosa, con le sue parole ci conduce nella malignità umana, il freddo calcolo di una mente malvagia e capace del male più orrido.

Da qui, quel “tutto è lecito” pronunciato da Ivan e che in assenza di un Dio si fa materia, un p come quel “Dio è morto” nietzschiano, dove la carenza di qualcosa di superiore va a nullificare ogni buon senso e logica umana, che non sembra avere motivo di esistere, in mancanza di quella divinità che tutto osserva e tutto giudica. Siamo veramente dei gusci che si svuotano della loro parte migliore solo perché sopra le nostre teste non oscilla il timore di una punizione o di un costante controllo da parte di qualcuno che tutto vede e sente e che poi condanna, se non in questa vita, nell’eternità?

Devo ammettere che i spunti di riflessione non mancano in questa mirabile opera, Dostoevskij sbatacchia il lettore come una pallina da flipper fra costanti opposti, fra certezze e incertezze, bene e male, in un cristianesimo fragile eppure onnipresente, in quella Russia così spesso inaccessibile e spazzata dal gelo, che ci si chiede come anche solo la vita in sé possa attecchire nelle sue sterminate tundre.

Un viaggio nel tempo e oltre esso, dentro quelle battaglie esistenziali alle quali ancora oggi tentiamo di rispondere, ed ecco perché queste opere non smetteranno mai di essere così attuali, impossibili da catalogare in un tempo e in un’epoca precisa o unica.

La meraviglia che Fëdor ci racconta e ci tramanda è la stessa che ci fa pensare che ci sia molto di lui nei suoi personaggi, dei suoi drammi, delle sue insicurezze, ci lascia in eredità quell’esistenza così fragile che ci accomuna tutti e che mai verrà risolta o cancellata dal tempo. L’autore ci affida l’agonia eterna dell’essere umano, di quella costante ricerca di senso e di verità, che niente pu colmare, perché ogni verità che crediamo tale è immersa in un ragionevole dubbio, quel dubbio che non ci permette di condannare ma nemmeno di assolvere nessuno, dove in quel riflesso che ci rimanda lo specchio, vediamo sia il condannato, sia l’innocente, ma anche Dio.

Forse non avr detto nulla che non sia già stato esposto o detto, come non sar nemmeno la prima a decantare la potenza che i classici racchiudono e che almeno una volta nella vita andrebbero letti, come allo stesso tempo difendo il diritto di non farlo o facendolo di non trovarci nulla di così appassionante o travolgente. Tutto ci non potrà pero togliere nulla alla loro grandezza che rimarrà eterna, nei secoli dei secoli.

Buona lettura folks…

Dubravka Dačić

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