Permette una domanda? Ep.1

Questa è la prima puntata di una rubrica (dichiaro subito il mio obiettivo: farla uscire due volte al mese, ma con molta, moltissima, elasiticità) in cui parlerò del genere giornalistico che preferisco: l’intervista.

C’è chi la vede come un’intensa partita a scacchi tra chi domanda e chi risponde, c’è chi dopo averne fatta una la riscrive come un serrato dialogo cinematografico (le mie preferite!), c’è chi le ha raccolte in libri, chi stabilisce un rapporto di fiducia con l’intervistato e chi ci tiene a mantenere le distanze.

Solo una cosa è certa: chi fa questo mestiere ne ha almeno una da raccontare, perché il bello delle interviste alla fine sta tutto nel non detto, nella storia che si cela dietro e che porta all’incontro, alla prima domanda.

Sì, ma cosa c’è in questa rubrica?

Negli ultimi anni ho fatto tantissime interviste. Così ho deciso di rispolverare le più interessanti (secondo me), ma anche di segnalare le più belle che ho letto in giro.
Magari ci sarà pure lo spazio per qualche ospite. Vedremo.
Per ora navighiamo a vista e – soprattutto – iniziamo. Se vi state domandando che faccia abbia mentre intervisto qualcuno… eccovi una foto d’archivio del 2018.

Foto di Moreno Pirovano @Tempo di libri 2018 (Zampediverse)

Interviste lette in giro

Per capire meglio Thomas Ceccon, uomo simbolo del nuoto italiano (Arianna Galati su Marieclaire)

Avete visto Parthenope? Qui Mattia Carzaniga dialoga con Paolo Sorrentino (su Rolling Stones)

Francesco Guccini la tocca piano sulla Meloni, ricorda Pazienza e dice che non gli manca cantare (in dialogo con Andrea Scanzi)

Steve Bannon non passerà alla storia per essere uno che sa rasserenare gli animi. Per niente. (Viviana Mazza sul Corriere della Sera)

Dal mio archivio

Tendenzialmente, per correttezza verso la testata che ha ospitato l’intervista, inserirò solo un paio di domande e magari racconterò il contesto in cui è avvenuta quell’intervista o perché ho deciso di riproporla.

In questo caso però la testata non esiste più (si trattava di Pianetadonna, del gruppo Mondadori) e quindi vi propongo la versione integrale della mia intervista (fatta a inizio 2019) a Michela Murgia.

In quel periodo molte tematiche che hanno caratterizzato la Murgia negli ultimi anni dovevano ancora emergere e di lì a un anno avrebbe pubblicato il primo Morgana. Leggere queste righe col senno di poi ci dice quanto l’autrice – scomparsa nell’agosto del 2023 – fosse pienamente consapevole di essere già quella che poi avremmo visto e conosciuto (meglio) tutti.

L’occasione dell’intervista fu l’uscita del libro Istruzioni per diventare fascisti. Un libro decisamente ancora molto attuale.

Buona lettura

È una guerra costante quella che combatte ogni giorno. Le sue armi? Un’attenzione maniacale verso tutto quello che succede nel mondo e la parola. Scritta, letta, parlata o twittata. Lei è Michela Murgia – in libreria (e in classifica) con Istruzioni per diventare fascisti [Einaudi] – ed è forse il più forte ed efficace cane da guardia di quest’epoca. Riprende, spiega a chi chiede chiarimenti, attacca e lotta. Un ultimo baluardo di quella resistenza intellettuale che non pontifica dai salotti, ma che ancora ha la voglia e il coraggio di sporcarsi le mani. Con lei abbiamo scambiato quattro chiacchiere sul mondo che ci circonda e che sta cambiando (in peggio). Lo abbiamo fatto partendo dalla cosa più importante. Dagli atomi che formano la società: dalle parole.

Parole come Femminicidio, Violenza di genere ma anche Quota rosa… ciclicamente arriva qualcuno ad augurarsi la scomparsa di queste o a interrogarsi sul loro utilizzo, auspicando un mondo dove non siano più necessarie. Ma servono, eccome… cancellare questi termini significherebbe girarsi dall’altra parte. 

Tutte vorremmo vivere in un mondo dove le parole femminicidio o quota rosa non servano, perché vorrebbe dire che nessuna donna muore più per mano di un uomo che la considerava propria e che nessun ambito della vita civile è diretto o rappresentato solo da maschi. Nella realtà però muoiono circa 130 donne all’anno e i vertici universitari, scientifici, industriali, culturali, politici e sportivi sono in grandissima maggioranza in mano maschile. Negare a questa discriminazione un nome è un modo per dire che non esiste alcuna discriminazione, che le donne non comandano perché non sanno farlo e che muoiono perché se la sono cercata. Molto comodo.

Che periodo storico e culturale stiamo vivendo? Ti faccio tre esempi.  Il governo nella manovra finanziaria ha tagliato il congedo di paternità. Come a dire (neanche troppo tra le righe): siano le donne a occuparsi dei figli e i maschi pensino a lavorare. 

È un vecchio pregiudizio quello di pensare che gli uomini lavorino per vivere e le donne per gentile concessione, se avanza tempo dalle incombenze familiari. Persino all’articolo 37 della Costituzione si continua a leggere che per quanto riguarda i diritti della lavoratrice “le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare”. Che l’essenzialità dei padri in famiglia non entrasse nella visione dei legislatori costituenti aveva perfettamente senso in quel contesto storico. Evidentemente però la testa di molti dei nostri governanti attuali è rimasta ai ruoli sociali del 1948 e quando l’offerta di lavoro si contrae quello che sembrava un diritto di tutti torna a essere una prerogativa maschile.

Esempio numero 2. Parlando di chi non è al governo: qualche settimana fa su Facebook scrivevo che il centro sinistra si beava del trionfo femminile alle elezioni di midterm negli Stati Uniti, ma che (mia opinione) a una Alexandra Ocasio-Cortez (29 anni neo eletta al congresso ndr) non affiderebbe neanche la gestione di un gazebo alle primarie. Da dove deve ripartire anche la sinistra? 

La sinistra deve anzitutto ripartire da sé stessa e da cosa vuole essere, perché questa categoria usata in senso diacronico continua a ingannare gli elettori. Per molti di loro sinistra vuol dire ancora attenzione alle fasce svantaggiate, stato sociale, protezione del lavoro, riforme sui diritti, economia soggetta a regole e internazionalismo. Nessuna forza politica sostiene però programmi che vadano in questa direzione in modo netto, sistematico e costante. Il Partito Democratico (in particolare negli anni renziani) ha avuto posizioni tutt’altro che di sinistra sulle questioni economiche, indicando in Marchionne – cioè nel manager che ha strappato la contrattazione del lavoro operaio al quadro di regole certe del contratto nazionale – l’uomo da prendere a modello per la ricrescita. Tutte le riforme del lavoro dei governi cosiddetti di centro sinistra (da Tiziano Treu al Jobs Act) negli ultimi vent’anni sono andate nella direzione della deregolamentazione del mercato, il contrario di quello che un elettore di sinistra si aspetta dal suo partito. La verità è che in Italia, per la particolare storia culturale e politica del paese, tutti i partiti a vocazione governativa sono sempre partiti di centro. La differenza si può giocare su alcuni diritti civili – di solito con accordi al ribasso che diano un colpo al cerchio e uno alla botte – ma mai sulle questioni portanti, che restano quelle economiche. 

Esempio numero 3. Potremmo discutere anche dell’informazione a “sesso unico”: tu stessa da circa un anno a questa parte stai sottolineando come i pezzi nelle prime pagine dei giornali siano quasi esclusivamente a firma maschile. 

L’ho fatto, ma la reazione stizzita delle redazioni – sia uomini che donne – mi ha rivelato quanto sia difficile ammettere una discriminazione quando la pratichi e persino quando la subisci. Tutti i lettori e le lettrici dovrebbero esigere un’informazione (e una politica, e una economia, e una religione) dove le voci rappresentative siano le più varie possibili. La ragione non è che le donne scrivano, governino, preghino o facciano i soldi diversamente dai loro colleghi, ma che se non ci sono donne nei luoghi della rappresentazione pubblica non è pensabile che la società possa diventare paritaria negli altri ambiti, quelli dove il conto dei nomi di donna non lo fa nessuno. Tutto quello che non è rappresentato è recessivo o non esiste, è l’eccezione e non la norma. 

Si sta parlando molto del tuo ultimo libro e del “fascistometro”, un test che tra il serio e il faceto mostra come, in 65 semplici frasi, siamo tutti a rischio davanti al virus fascista. Leggendolo emerge anche una correlazione tra un atteggiamento fascista e determinate letture del mondo che vanno dal “Eh ma quella se l’è cercata” fino al “Se non li mandiamo a casa ti dovrai mettere il burqa”.  È una lettura corretta? 

Ho inserito molte frasi sessiste nel fascistometro perché sono spie: non esiste una sola variante di fascismo al mondo che non sia stata sempre anche sessista. Se voglio verificare la deriva potenzialmente fascista di una società la prima domanda che mi faccio è: “A che punto stanno i diritti delle donne e delle persone omoaffettive?” Il conservatorismo e la pretesa naturalità immutabile dei ruoli di genere sono elementi certificatori di quell’ur-fascismo a cui Umberto Eco dedicò la ormai famosa conferenza alla Columbia. Il culto del capo e dell’uomo forte si fondano sul modello di mascolinità tossica del machismo patriarcale e hanno bisogno che le donne e le altre modalità del maschile non si affianchino come paritarie. Se il fascismo le trova deboli le soffoca, se le trova organizzate le combatte con violenza. Le donne che muoiono di femminicidio non sono donne deboli: sono donne che si stavano dimostrando più forti e autonome del sistema di relazione che le voleva vittime. 

Ed eccoci ai saluti

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Ci leggiamo tra qualche settimana!