Lo scontro del secolo. Benvenuti, Mazzinghi, i Beatles e Milano

Italia, anno del Signore 1965.
Lo stipendio di un operaio del Bel Paese è di circa 86.000 lire. Un biglietto del tram e un quotidiano, da leggere durante il tragitto, fanno cento lire in tutto. Un caffè in tazzina ne costa sessanta, e Addio alle armi, di Ernest Hemingway, è il primo Oscar Mondadori ad essere venduto in edicola, a 350 lire. Il soggiorno in una pensione di Cesenatico, tutto compreso, costa mille e cento lire al giorno a persona e il pedaggio da Napoli a Milano sull’Autostrada del Sole – appena inaugurata da Aldo Moro – costa 2950 lire.
Sanremo – condotto da Mike Bongiorno – lo vince Bobby Solo, con Se piangi se ridi, in coppia con il gruppo folk statunitense The New Christy Minstrels. E proprio dagli Stati Uniti d’America, pochi giorni dopo, arriva l’eco e il clamore per l’invio di truppe nel Vietnam del Sud. Intanto Vittorio De Sica ottiene l’Oscar per il film Ieri, oggi, domani, interpretato da Sophia Loren e Marcello Mastroianni.
Giugno, invece, ha una storia a sé. E – almeno per l’Italia – sarà un mese incredibilmente denso di accadimenti. È il mese in cui l’Italia decide di bloccarsi, come in un grande sciopero generale, per osservare due grandi eventi milanesi.
All’inizio sembravano due cose lontanissime e quasi irrealizzabili. Quelle cose di cui si parla sempre, ma che non arrivano mai. Tipo il Natale, se sei un bambino e sono appena ricominciate le scuole. O l’amore, quando hai il cuore infranto.
Milano, nel giugno del 1965, è la città che ospitò il primo concerto italiano dei Beatles. I fab four, sebbene fossero già conosciuti e amati dagli europei, riempirono il velodromo Vigorelli, ma non lo esaurirono. Il loro concerto durò – giurano quelli che erano lì – poco più di mezzora e prima di loro si esibì per “scaldare” il pubblico Peppino di Capri. Questa la scaletta con cui la band di Liverpool salì sul palco per suonare il primo live italiano:
She’s a woman
I’m a loser
Can’t buy me love
Baby’s in black
I wanna be your man
A hard day’s night
Everybody’s trying to be my baby
Rock and roll music
I feel fine
Ticket to ride
Long tall Sally
Il concerto si aprì con Twist and shout. Contorciti e urla, volendolo tradurre grossolanamente dall’inglese. E sarebbe stata anche la colonna sonora ideale per quanto accadde lì una settimana prima. In quel catino col prato verde. Contorcersi e urlare, portando a segno un colpo. O mancandolo.
Milano, nell’estate del ’65, era il centro del mondo.
Il centro del mondo sportivo, almeno. Ben lontana dalla Milano da bere o dalla Milano capitale dell’economia, ma è sicuramente qui che il substrato pop iniziò a ribollire, lasciando il presagio di un importante cambiamento storico e sociale.
Una settimana prima di quel concerto, il 18 giugno, a San Siro – proprio dove, sempre quell’anno, l’Inter di Sarti, Burgnich, Facchetti, ma anche di Suarez e Mazzola, costruì le vittorie in coppa dei campioni, prima, e della coppa intercontinentale, poi – due uomini si sfidarono, nell’arco di sei riprese, per decidere chi avesse il diritto di essere considerato il pugile più grande.
L’incontro del secolo: lo scontro tra Giovanni Benvenuti, detto Nino, istriano di nascita e triestino d’adozione, e Alessandro Mazzinghi, toscanaccio di Pontedera, detto Sandro. In palio c’era il titolo mondiale dei pesi medi junior. E l’onore, forse ancor prima.
La tensione, per chi ha la fortuna di essere lì, quella sera, si taglia con il coltello. Uno stadio intero è gremito in ogni ordine di posto per vedere due uomini darsele di santa ragione, finché uno dei due non avrà la meglio sull’altro. Siamo in un tempio del calcio, ma stasera lì dentro valgono altre regole. Nella boxe si vince o si perde. E non esistono rigori o tempi supplementari.
Manca qualche minuto alle ventidue. Il ring è ancora vuoto. È uno stadio nello stadio. Un recinto, che tradotto letteralmente significa anello, rotondo – o comunque qualcosa di circolare – e che invece, tradotto dagli occhi umani, è un basilare quadrato, un parallelepipedo con delle corde ai lati. Spigoloso. Come i volti e i caratteri dei due protagonisti di questa storia.
Ci sono quarantamila persone sugli spalti. Almeno altrettante avrebbero fatto carte false per poter accedere e guardare, anche dal posto più lontano e scomodo, qualche momento di quella battaglia. Perché di quello, in un intero Paese, si sarebbe parlato nei tempi a venire. Tra le prime file si riconoscono tanti volti popolari. Non vuole mancare nessuno. Non sarà certo Las Vegas, Milano, ma l’aria che si respira ci si avvicina molto.
Ci sono Marcello Mastroianni e Delia Scala, Renato Rascel e Maurizio Arena. L’incasso della serata ha superato i cento milioni di lire, una cifra pazzesca, e l’entità delle borse riservate ai due atleti è in linea con la portata dell’evento. Si parla di ventidue milioni per Mazzinghi – campione in carica – e di quindici per Benvenuti.
L’inizio è previsto per le dieci e trenta della sera. Un orario poco milanese, si penserebbe oggi. Ma per una volta, se c’è di mezzo un appuntamento con la storia, si può anche fare un’eccezione. Si può anche fare un po’ più tardi. Arbitra il signor Brambilla, Piero Brambilla. Inutile specificare la sua appartenenza alla sezione meneghina.
Milioni di italiani trattengono il respiro, divisi tra mazzinghiani e benvenutiani. Quarantamila di questi, quel respiro lo riversano direttamente sul ring, facendolo sentire sulle facce e i petti nudi dei due contendenti. I Coppi e Bartali dell’Italia coi guantoni non sembrano avvertire le pressioni esterne, presi come sono dal pensiero di annientarsi vicendevolmente.
Possono cominciare. Suona la campanella. Inizia la battaglia.
Gong.

Ripresa numero uno: dentro la testa di Mazzinghi.

Respira.
Respira.
Muoviti.
Fai girare i pugni.
Non scordarti di guardarlo dritto negli occhi. Lui è caricato dalla stampa, gli organizzatori lo vogliono campione.
Respira.
Muoviti.
Respira. Puoi spuntarla. Lo sai che se ti becca con un colpo sei finito.
Il campione sei tu. Chiamano campione pure lui, ma che mi rappresenta? L’olimpiade di Roma vinta da un istriano? Che mi facessero il piacere.
Lui è un medio naturale e tu non hai mai fatto fatica a rientrare nel limite. Stavolta però hai dovuto sudare sette camicie per stare qui.
Respira.
Muoviti.
Respira.
Conta fino a cinque e poi si parte. Si parte con la confusione. Pugni e attacchi su ogni lato.
Respira. Non farlo respirare.
Muoviti. E vedrai che la spunti anche stavolta.
Non farlo muovere. Se ti becca è la fine.
NON. FARLO. MUOVERE.
Conta fino a cinque e poi parti. Appena abbassa la guardia parti.
Conta fino a cinque.
Uno… due… tre… quattro… e… cinque!

Ripresa numero due: Marcello Mastroianni.
«Marcello, Marcello! Che dici, chi vince stasera? E a che ripresa andrà giù? Noi qui diciamo alla Otto e mezzo! Ahahah, l’hai capita? Possiamo offrirti da bere?» L’avrà sentita almeno dieci volte, oggi, una battuta del genere con annesse varianti. In albergo, in giro per la città e avvicinandosi a San Siro. Ogni volta che usciva fuori il discorso, che sarebbe andato a vedere il match del secolo, qualcuno non trovava nulla di più arguto che scherzare sulle riprese del match e sul film di Fellini, uscito due anni prima.
Sorride sempre. Anche alla ventesima battuta identica. Come se la sentisse lì, in quel momento, per la prima volta. È bello come il sole, nel pieno dei suoi quarantun anni, e gli basta un sorriso per far innamorare la gente intorno a lui. Uomini o donne, poco importa. Se quella sera non ci fossero stati due pugili a promettersele, e ad affrontarsi tra sangue e sudore, San Siro sarebbe stato suo. Soltanto suo. Avrebbe conquistato tutti. Anche lì, dalle prime file. Senza bisogno di salire sul ring.
Sarebbe stato meglio di un Oscar.

Ripresa numero tre: dentro la testa di Benvenuti.
Ora attacca lui.
Com’è che mi dicevano sempre, in allenamento? Tocca resistere, qui sopra. Resistere e vedere che succede, col tempo che passa.
Resistere e far passare il tempo. Sembra facile dirlo, quando non devi salirci tu, davanti a questo indemoniato che attacca su tutti i fronti.
Eccolo che riparte.
Mi sposto di lato, cerco di schivare e, se proprio non ce la faccio, allora provo a incassare. Con stile. Senza rimetterci un polmone o, peggio ancora, tutta la serata.
Resistere e far passare il tempo. Ma non so se, prima o poi, questo si stancherà.
Resistere e far passare il tempo, in attesa che qualcosa accada. Dice che quando qualcosa sta per accadere te ne accorgi. Io per ora schivo e incasso.
E faccio passare il tempo.
Resisto.
Ma non so se arriverò lucido a scoprire cosa accadrà più avanti.

Ripresa numero quattro: la radio di Attilio.
Attilio aveva fatto il cattivo, quella sera. Per questo i suoi lo avevano mandato a letto senza cena, anche se per lui mangiare non era importante. Quel giorno, almeno. Il dramma vero era non poter ascoltare il match insieme a tutta la famiglia. Una famiglia di contadini, a Lendinara, in pieno Veneto, a poche curve di strada da Rovigo.
Suo padre è un grande appassionato di boxe ed è tutta la settimana che gli racconta le eroiche gesta di Benvenuti e Mazzinghi: «Noi però tifiamo Mazzinghi, attenzione! Perché lui è uno come noi. Uno del popolo. Uno che ce l’ha fatta e tutto quello che guadagna se lo merita. Un giorno magari, pure tu, facendo a cazzotti, riuscirai a camparci tutti».
La poesia di quel momento famigliare – se così possiamo chiamarlo – si era interrotta però un’ora prima di cena, mentre Attilio stava giocando in giardino. Tirava pugni verso un Benvenuti immaginario e si era rifiutato di aiutare sua sorella a innaffiare l’orto. E per questo era stato spedito direttamente in camera. Senza cena, per di più. E sì che quella era una sera speciale. La mamma aveva tirato dieci uova di pasta e c’era anche il pollo al forno.
Così Attilio decide di calarsi dal secondo piano del loro casale. Scende aiutandosi con un albero e corre verso il garage di nonno Piero. Apre la porta il necessario per sgusciare dentro e poi se la richiude alle spalle, andandosi a rannicchiare tra una ruota del trattore e il banco degli attrezzi. Lì sopra, tra un martello e delle taniche di gasolio, suo nonno tiene una vecchia radio. È proprio quella che cerca Attilio. Una Philips Philetta del 1957. Una radio che quando la accendi si illumina tutta e se sei al buio la stanza diventa tutta gialla, del giallo più caldo che c’è.
Krschsshrrrrrrrr.
Attilio abbassa subito il volume e si toglie la maglia per gettarla sulla radio. Così la luce non darà nell’occhio e non lo beccheranno. O almeno lo spera.
Gira compulsivamente la manopola della frequenza finché, tra rumori e silenzi, sente una voce raccontare quello che sta accadendo a Milano. Ora c’è anche lui all’appuntamento con la storia. E ancora non lo sa, ma un giorno quella sarà una delle storie più belle che racconterà ai suoi nipoti.

Ripresa numero cinque: Vittoria e Camillo.
Vittoria ha ventisette anni e da tre è sposata con Camillo. È visibilmente annoiata. E, mentre Benvenuti e Mazzinghi si pestano, lei si guarda intorno con curiosità. Con la mano sinistra controlla che l’impalcatura che si è costruita sulla testa con grande pazienza, prima di uscire di casa, sia ancora in piedi. Guarda ovunque, scruta facce e paragona vestiti e acconciature con le sue. Non si sente la migliore, ma sa che non sta sfigurando. Nella sua personale – e il più possibile oggettiva – classifica se ne è messe dietro molte. Il suo sguardo si incanta sul ring, proprio mentre è in corso la pausa tra il quinto e il sesto round.
E sorride. Sta sognando. Sogna che alla prossima pausa si alzerà e si scontrerà casualmente con Mastroianni. L’ha intravisto tra la folla, prima. Lui le raccoglierà la borsetta e – porgendogliela – le bacerà la mano, dicendo: «Mi perdoni signorina. Perché lei è signorina, dico bene?».
Il sogno è breve.
Suo marito la richiama subito all’attenzione: «Cara, ma che guardi sul ring? Non c’è niente da guardare. Un po’ di attenzione, diamine. Sai quanto ho pagato per portarti qui stasera? Se sei qualcuno e conti qualcosa, stasera sei qui. E noi ci siamo. E non esultare troppo alla fine dell’incontro. Il commendator Briaschi è tre file indietro e non so per chi tifa. Non voglio fare brutte figure in ufficio, nei prossimi giorni. Capito? Hai capito? Ma, insomma, perché stai ridendo?».
Gong.

Ripresa numero sei: la fine e l’inizio.
Gong.
Inizia la sesta ripresa e dentro San Siro si ha la sensazione che non sarà una ripresa come tutte le altre. Chi era lì giura di aver percepito un’atmosfera diversa. Elettrica. Non sapremo mai se fosse vero. Sappiamo però che, in quella ripresa, qualcosa accadde sul serio.
Lo ricostruisce, parecchi anni dopo, in occasione della celebrazione per il mezzo secolo dell’incontro, Il Corriere della Sera, con un pezzo di Claudio Colombo: «Il match si risolve in meno di mezz’ora: il campione scarica su Benvenuti la sua boxe asfissiante e coraggiosa, potente e spericolata. Nino viene sballottato ma resiste. A venti secondi dalla fine della sesta ripresa, il capolavoro: sull’ennesimo attacco del Gladiatore, Benvenuti muove un passetto laterale a sinistra e fa partire un montante destro terra-aria che si ferma, con effetti devastanti, sulla punta del mento dell’avversario. Mazzinghi va giù, con lui mezza Italia, e non si risolleva.»
Ci saranno polemiche su polemiche. Polemiche a caldo. Ma anche cinquant’anni dopo, talmente a freddo da contenere un’era glaciale. Si organizzerà subito una rivincita a Roma, qualche mese appresso, ancora più ricca di polemiche, al palazzetto dello sport dell’eur. Sarà un evento mediatico, ancor prima che sportivo, e riempirà in maniera martellante e ossessiva il vuoto tra i due match. Seguiranno anni di liti e spiegazioni a distanza. Ma la Storia, quella con la maiuscola, ormai era scritta. La sera che definisce ciò che è stato, e quel che non sarà più, è appena trascorsa. È finita. E non ce ne sarà un’altra così bella ed elettrica per molto tempo.
Vittoria e Camillo tornano a casa cercando di ricostruire gli atteggiamenti del commendator Briaschi. Sembrava arrabbiato, ma sorrideva pure. Non capiscono per chi abbia tifato. E questo getta Camillo in preda al panico. Passano davanti a un cinema e Vittoria ripensa al suo Marcello. Sospira.
Attilio si addormenta abbracciato alla radio. Il padre lo troverà la mattina dopo e prometterà di non dire nulla alla mamma.
Mastroianni esce, fermandosi ogni cinque metri per firmare autografi e sorridere alle battute. Sorride a tutti.
Mazzinghi e Benvenuti si leccano le ferite e consegnano i loro nomi alla leggenda, non solo di uno sport, ma di un intero Paese. Non si parleranno per oltre mezzo secolo. E questo contribuirà ad alimentare la grandezza dei due personaggi. Ricorderanno con astio e antipatia reciproca il passato. Le sfide.
Poi, un giorno di primavera, arrivati entrambi alla soglia degli ottant’anni, decideranno di fare pace. Basteranno una telefonata e poche parole. Una cosa semplice. Come loro due, del resto.
Si spengono le luci. San Siro si svuota. L’arena torna uno stadio. Il ring torna a essere un cerchio di centrocampo. Tutti, il giorno dopo, avranno una storia da raccontare. Ognuna diversa dalle altre. Ma tutte con lo stesso identico finale.

Per gentile concessione dell’autore Federico Vergari e dell’editorie Tunué